Senza categoria | Fano – Passaggi Festival https://2020.passaggifestival.it/ Passaggi Festival. Libri vista mare Sat, 12 Sep 2020 06:52:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.5.1 https://2020.passaggifestival.it/wp-content/uploads/2020/03/cropped-nuovo-logo-passaggi-festival_rosso-300x300-1-32x32.jpg Senza categoria | Fano – Passaggi Festival https://2020.passaggifestival.it/ 32 32 Il Resto del Carlino.it – Gaudenzi e l’arte di meravigliare https://2020.passaggifestival.it/il-resto-del-carlino-gaudenzi-e-larte-di-meravigliare/ Wed, 09 Sep 2020 22:00:34 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75573  

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La cosa preziosa https://2020.passaggifestival.it/silvia-spera-cosa-preziosa/ Tue, 08 Sep 2020 15:22:12 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75550 La poesia che brilla, incurante come un'estate, proprio là dove sarebbe facile pensare che non c'è. La storia di Silvia Spera

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di Silvia Spera 

 

E’ arrivato il momento, sente pronunciare il suo nome, le mani di un ragazzo sorridente con gli auricolari
scostano il tendone per lui, forse ha percepito le vibrazioni del suo tremare, ma invece le gambe a condurlo
fin sul palco devono per forza essere le sue, senza aiuti di arti altrui.
E’ stata una sorpresa ricevere quella telefonata da una giuria che lo invitava al ritiro del premio, una piccola
cerimonia non si preoccupi, e un breve servizio nella sezione cultura del TG3, aveva detto la voce al di là
della cornetta, riagganciando.
Una di quelle emozioni che ti toglie il fiato, gli era successo solo quando gli avevano immesso litri di acqua
in gola con l’imbuto, senza lasciargli tregua.

I volontari dell’organizzazione umanitaria locale che gli offre un letto e un piatto caldo lo hanno iscritto,
mesi fa, al concorso letterario di poesia, a sua insaputa. Marta pulendo, come ogni sabato, aveva trovato un foglio stropicciato in terra, sotto l’ultima branda, e senza saperne il motivo, invece di gettarlo via, insieme ai rifiuti già accumulati dagli altri stanzoni della zone notte, si era soffermata a leggerlo. E subito era corsa da Alessandro, il capo del 95, come lo chiamavano, per istinto, così, sentendo di avere tra le mani una cosa preziosa. L’autore della cosa preziosa viveva al Binario 95 della stazione Termini da cinque anni ormai, in mezzo
all’incurante splendore romano, si sentiva amato e i ragazzi dell’associazione che lo ospitava non solo lo
avevano accolto, rimesso in forma e inserito in un colorato gruppo di umanità varia e stimolante, ma gli
avevano trasmesso un po’ del calore e della fiducia in se stesso, che aveva lasciato, e credeva perduti per
sempre, a Lomé, tra le carezze materne.

Quella fiducia in sé stessi che una mamma a cui è concesso il tempo per osservare il suo ragazzo crescere
può costruire giorno dopo giorno, con i piccoli gesti densi, con le brevi frasi appena sussurrate, con uno
sguardo dolcemente compiaciuto, mattone dopo mattone.
Già, mattone dopo mattone… il pensiero torna a quando, dopo mesi vissuti nel deserto, ha vissuto in tre
mattonelle. Questo era lo spazio concesso ad ogni prigioniero, con un compagno con cui fare i turni, uno in
piedi su mezza mattonella mentre l’altro, su cinque e un pezzetto, provava a dormire. Con i corpi intrecciati
come gemelli nell’utero di una sola madre. All’inizio nessuno lo toccava e lui, inguaribile romantico, pensava che nessuno osava toccare quel fiore bello bizzarro che aveva trovato posto sul marciapiede sbiadito.

E poi le parole sono arrivate, come un flusso che non riesci ad interrompere, come quelle gocce che cadono
dalla busta della tua spazzatura e non sai come rimediare a quel disastro ormai avviato nella tromba delle
scale del palazzo, come la polvere che le stelle seminano tra le galassie nonostante il vano tentativo del sole
di respingerla. La terra umida e odorosa tra la mani, l’alba nei campi così ordinati come solo la natura sa fare, le lacrime dei compagni, la fatica, i colori quasi immaginifici, le piccole cose che hanno grandezza dentro di loro e che ti si avvvicinano e ti sussurrano come fossero angeli o fantasmi, lo hanno reso un poeta.
I frutti seducenti dell’estate, l’esplosione di luce sui filari, le canzoni silenziose lo hanno costretto a
raccattare penne e carta dappertutto, come se fossero un terzo braccio, la sua terza mano, la sua seconda
testa e il suo secondo cuore. Quegli sguardi chini e stanchi, sempre sull’orlo del riso e del pianto. Non sono solo braccia muscolose regolate da ritmi stagionali. Tutti diversi ma parte l’uno dell’altro, chi oltrepassa le frontiere, chi sostiene chi è appena arrivato, chi produce semi e li distribuisce gratuitamente, ognuno con la sua lucida pazzia, chi si traveste da albero per sentire la terra, chi nasconde arcobaleni perché non vengano venduti, chi pittura le sirene di altri colori perché si mimetizzino e non siano esposte ai pericoli.

Quando prova a volare via con la mente per costringersi a non scrivere, con la schiena appoggiata al tronco
del suo albero, niente da fare, ci si mettono anche i ricordi, i ricordi che non lo lasciano in pace un attimo.
La moglie in attesa non solo del suo ritorno, l’universo non accetta la nostra separazione. Altera il suo
equilibrio, dicevano, ma erano stati costretti a separarsi. E le luci di Lomé, quella spiaggia in fondo alla strada, che la stringe in un abbraccio e quelle sue tombe scavate nella sabbia.
Lomé, come tante altre città, non fa sentire la sua voce se non ci si è adagiati sul suo cuore singhiozzando
almeno una volta, o se non ci si è addormentati tra le sue braccia.

Eccolo quindi sul palco, camicia di Alessandro e sopracciglia da modello, che Marta ha insistito per sistemargli, prende tra le sue mani grandi la minuscola scultura. L’uomo con il microfono, sorriso smagliante, camicia tesa sul ventre, pochi ciuffi grigi intorno alla pelata, le fede che strangola l’anulare in cui è stata infilata anni fa, gli chiede di recitare la sua cosa preziosa, e lui, fiero come un leone, voce ferma che invade l’auditorium, labbra carnose che divorano la parole:

Mi spezzo la schiena per soddisfare la tua fame, europeo
Mi sveglio, invisibile, prima dell’alba e il mio sudore vale mezzo euro a cassetta
Assaggiatore di prelibatezze dall’orto delle isole biologiche,
che vai al mercato con la tua shopper alla moda
Il mio stato liquido, senza forma, saranno baratro e voragine in cui precipiterà la tua coscienza

 


 

Silvia Spera è nata a Colleferro in provincia di Roma.
Vive a Roma da tanti anni. E’ IT Architect e matematica, appassionata di lettura, mare  e cinema.

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Pippo Ciorra e la crisi dell’architettura italiana https://2020.passaggifestival.it/pippo-ciorra-crisi-architettura-italiana/ Fri, 04 Sep 2020 08:52:39 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75282 Giovedì 27 Agosto, presso la Sala da tè L’Uccellin bel verde, si è tenuto il primo incontro della rassegna Calici di scienza con l’Università di Camerino, dal titolo: Istruzioni per non restare senza architettura, tenuto da Pippo Ciorra. Il pubblico ha potuto così seguire l’intervento, gustando un aperitivo offerto dalla Sala da tè e Passaggi […]

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Giovedì 27 Agosto, presso la Sala da tè L’Uccellin bel verde, si è tenuto il primo incontro della rassegna Calici di scienza con l’Università di Camerino, dal titolo: Istruzioni per non restare senza architettura, tenuto da Pippo Ciorra. Il pubblico ha potuto così seguire l’intervento, gustando un aperitivo offerto dalla Sala da tè e Passaggi festival.

Il futuro dell’architettura

Pippo Ciorra è un architetto originario di Roma, nonché tra le tante cose docente di architettura presso l’Università degli studi di Camerino e senior curator del museo Maxxi di Roma. Come curatore si è spesso interessato alle emozioni che l’architettura suscita nelle persone. Da tanti anni il docente è impegnato in una battaglia per salvare l’architettura da una crisi che ormai dura da anni e che lo hanno spinto a scrivere nel 2011 il saggio: Senza architettura. Le ragioni di una crisi, edito dalla Casa editrice Laterza.

Innovazione e cambiamento

Per Ciorra si è diffusa, oggi, una certa sfiducia verso la figura dell’architetto, che deriva da una frattura, un gap venutosi a creare tra la società e gli stessi architetti. Questa crisi, cominciata probabilmente negli anni settanta, nasce da diversi fattori (dieci in particolare), che l’autore raccoglie all’interno del saggio, uno per ogni capitolo. Il primo problema che Ciorra individua riguarda il rapporto dell’architettura italiana con quella di altri paesi stranieri, spesso molto più aperti al cambiamento e all’innovazione. Nel saggio, l’ordine professionale viene descritto come una massa senza potere e poco organizzato, in cui la troppa concorrenza porta ad un abbassamento della qualità. Oggi invece, la situazione è quella di un drammatico calo delle iscrizioni alle facoltà di architettura. Il terzo problema riguarda il gap legato all’insegnamento che esiste tra le università italiane e quelle straniere. Questo divario sta fortunatamente diminuendo, nonostante la parola innovazione faccia ancora paura e vi sia un generale problema di organizzazione.

La città e i cittadini

Quello della città è un tema molto caro al docente, per cui gli architetti dovrebbero osservare e capire come le persone vivono all’interno della città e cambiare la disciplina rispetto al contesto. Un altro tema fondamentale è quello della politica. Per Ciorra l’architettura dovrebbe mantenere il suo legame con la sfera politica. L’estrema ideologizzazione però, tipica degli anni sessanta e settanta, ha contribuito a creare il gap tra la società e gli architetti sopraccitato, spingendo le persone a rivolgersi maggiormente verso altre figure professionali, come gli ingegneri.

“L’architettura è la missione di produrre significato attraverso la forma. Questa forma interagisce con la vita personale, collettiva, politica e sociale delle persone”

Critica, editoria, media e «architeinment»

All’interno del saggio, Ciorra lamenta l’assenza della critica italiana, scomparsa in seguito all’avvento della cultura di massa e dei grandi giornali dopo gli anni cinquanta. Egli critica inoltre, l’uso da parte degli architetti di un linguaggio troppo lontano da quello delle persone, la mancanza di un verbo comune che faciliti la comunicazione e che permetta di farsi capire. Oggigiorno, secondo l’autore, l’editoria d’architettura è un fantasma; tutto arriva su internet, mentre per quanto riguarda i media, questi preferiscono dare maggior spazio alle interviste con i grandi maestri. Un’altra tendenza odierna dell’architettura è quella di trasformarsi in intrattenimento, il cosiddetto «architeinment». Gallerie, centri di ricerca e musei che ormai non affrontano più l’architettura con l’idea di cambiare qualcosa nello spazio della vita delle persone, sacrificando così la teoria e il pensiero più solido, in nome del puro intrattenimento.

Arte e tecnologia

Secondo il professore, ciò che manca da sempre all’interno del mondo dell’architettura italiana, è l’arte. Dagli anni cinquanta in poi gli studenti di architettura italiani non hanno avuto contatti con l’arte contemporanea. L’architettura, secondo i teorici, doveva essere pura, l’arte era proibita poiché i grandi già si sentivano artisti (situazione molto diversa all’estero). L’ultimo capitolo del libro, incentrato sulla tecnologia, offre l’occasione di riflettere su una questione: che cosa deve essere l’architettura oggi. In alcune facoltà di architettura si insegna soltanto l’uso della tecnologia, dove gli architetti costruiscono robot. In altre università gli studi si concentrano principalmente sui “big data”, oppure sull’ecologia. Il docente vede un esplosione del mestiere di architetto in tanti campi che lo mettono in competizione, però, con altre figure professionali molto più adatte e che potrebbe determinare un giorno, proprio la morte di questa professione.

Superare la crisi

Il messaggio di Pippo Ciorra è semplice: «Ci deve essere sempre un minimo di “erotismo” proprio nell’atto del progetto, cioè di provare piacere nel considerare il disegno dello spazio il tuo linguaggio e raggiungere questi obiettivi che sono la sensibilità ecologica, la consapevolezza del potenziale della tecnologia, riconducendo il tutto a quella cosa che sa fare solo un architetto, mettere tutte queste cose insieme, dentro ad una forma». Questa è la grande battaglia che oggi deve affrontare l’architettura italiana. Per il docente è importante che l’architetto per prima cosa si diverta e mantenere comunque un proprio baricentro. L’architettura è esogena, nasce dai problemi, dallo spazio e dai bisogni delle persone, tuttavia deve trovare poi un punto di incontro tra il linguaggio artistico e il bisogno delle persone.

Le soluzioni individuate

La prima risposta che Pippo Ciorra ha dato a tutti questi problemi è stata attraverso una mostra al Maxxi, chiamata Re-Cycle. Il tema nasce dalla volontà di costruire oggetti dal nuovo, che nascessero dal conflitto tra vecchio e nuovo. La seconda risposta invece è quella di ripartire dalle case, idea espressa attraverso una mostra sull’architettura giapponese, dove per prima cosa gli architetti lavorano sulle persone, interessandosi allo spazio e all’uso dello spazio che ne faranno. Per salvare la propria professione, secondo Ciorra, gli architetti italiani dovranno fare proprio questo, riavvicinarsi ai bisogni delle persone.

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L’uomo nuovo https://2020.passaggifestival.it/valentina-risi-uomo-nuovo/ Thu, 03 Sep 2020 13:08:30 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75381 Una storia di uomini, amori spezzati e destini interrotti, e poi, la vita che scalcia e scendi dalla balaustra per aprire la porta al futuro. La storia di Valentina Risi

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di Valentina Risi

 

Il malessere è iniziato da due giorni, il momento si avvicina. Trovare sollievo è sempre più difficile, Miriam apre lo stesso l’acqua calda, è già nuda, entra nella doccia, lascia che il getto scorra addosso. Edda, la confidente di sempre le aveva raccontato del rimedio della doccia, eppure lei, che adesso sta piangendo, non riesce a trovare tregua e solo il getto delle lacrime sembra sostenerla. Si asciuga con calma e si riveste, chiama un taxi e prende la valigia lì da mesi, le azioni sono rallentate dalle fitte ora sempre più vicine e dalla paura di svenire da un momento all’altro. È sola, ma questo lo sapeva già.

Il taxi l’accompagna al pronto soccorso dell’Ospedale Bambin Gesù, è quasi mezzanotte e per fortuna non c’è traffico, ma deve avere la faccia di porcellana perché subito arriva “Giulia”, così legge sul cartellino, la rassicura e la sostiene. Ormai manca poco. Giordano sceglie di venire al mondo in un lunedì qualsiasi: sono le 2.30, pesa 3. 340 kg ed è lungo 51 centimetri. Ha dormito tutta la notte e con lui anche Miriam.
Sono tornati a casa, Edda è passata a salutare e a dare una mano, Maddalena, la signora dell’appartamento accanto, ha messo dei palloncini di benvenuto all’ingresso eppure Miriam non accenna un sorriso, anzi ringrazia e chiede alle due amiche, con cortesia, di lasciarla sola.
Il bambino sta riposando nella camera da letto, così Miriam prova a riordinare la casa lasciata in tutta fretta qualche giorno prima, le pesa raccogliere gli asciugamani delle docce buttati a terra, il bicchiere con ancora la tisana al timo che non è riuscita a bere, la sua biancheria sparsa tra il bagno e il salotto, la canotta turchese cambiata in tutta fretta appoggiata sul lavandino. Quel disordine però le fa tenerezza e mentre si guarda attorno arrancando su ogni cosa, l’occhio le cade sulla fotografia lasciata in bella mostra nel terzo ripiano della libreria, un reparto visitato spesso: Leonardo Sciascia, Yukio Mishima e Amos Oz. Miriam la prende e la guarda ancora, si avvicina al balcone per osservarla meglio, è in bianco e nero e pure un poco scolorita.

Il ragazzo indossa una camicia chiara e dei pantaloni più corti delle sue gambe, un paio di bretelle li tengono su, una mano è nella tasca e l’altra tiene la sigaretta che sta aspirando. E’ in posa: sguardo da sbruffone sicuro del fatto suo, una sfrontatezza tradita da quella coppola sghemba che probabilmente lo fa sorridere perché la bocca accenna una smorfia divertita. L’osserva con attenzione e nota che l’occhio sinistro è socchiuso, come se il sole lo stesse accecando, ma non è una reazione, è una malinconia. Col destro pavoneggia la sua determinazione, dal sinistro sembra trasparire l’ombra di un turbamento intimo. Adesso Miriam copre con la sua mano l’occhio destro del ragazzo nella foto per guardare meglio il sinistro, si, è uno sguardo pieno di tristezza, lacrime pronte a
cadere e l’impotenza di uno che vorrebbe chiedere aiuto e non sa farlo.

Cleto, suo zio, il ragazzo di ventiquattro anni che in quella stagione indefinita posava spavaldo davanti alla macchina fotografica si è suicidato e nessuno ha mai saputo perché. Era solo, nel casolare di campagna, con
un buco in testa e il fucile ancora in mano. Lo trovò sua madre, caduto sulla paglia con la testa poggiata su un lato di sangue rosso scuro. Quel ricordo la scuote, le sembra di rompere uno gioco di specchi in quella fotografia. Si ritrae con un passo indietro prima di lasciarlo andare e la fa cadere a terra come un piatto bollente che ti scotta le dita. Va in camera da letto a controllare che Giordano dorma ancora: il petto del bambino si solleva lentamente, è tranquillo e dorme profondamente, si sente rassicurata, raggiunge il rubinetto e sciacqua via il turbamento.

Si rifugia in un ricordo di felicità. I primi tempi con Antonio, la smania di vederlo e l’emozione che la faceva
tornare ragazzina ogni volta che si organizzavano per incontrarsi, il timore, l’impaccio tutte le volte che lo
baciava e la voragine che le si apriva nel petto ad ogni separazione.
Giordano era stato concepito un sabato pomeriggio d’estate, un weekend che avevano tanto atteso e più
volte rimandato, esitanti, accampando impegni dell’uno o dell’altra, poi un venerdì avevano infilato qualcosa in uno zaino ed erano partiti per quell’albergo a picco sul mare.
Fecero il gioco di riconoscere le diverse imbarcazioni che navigavano o sostavano al largo; sotto la pergola c’era una coppia, leggevano e fumavano. La stanza era sospesa come un’altra barca al largo, tanto il mare era vicino che lo guardarono stesi sul letto. L’amore fu lento, mosso, il letto così le parve, beccheggiava in quell’amore calmo, un continuo baciarsi e accarezzarsi per tutto il pomeriggio. Sudarono, bagnati, nudi fino a tarda sera. Quando tornarono in sé, il mare era puntellato dalle luci delle barche.

Si separarono e non fu semplice. Dicono che la disperazione dell’addio è la vetta dell’amore. Chissà, Antonio semplicemente non ce l’aveva fatta a cambiare vita, a trasferirsi in un’altra città, a condividere la casa e la libertà con Miriam. Antonio sapeva e non diceva che era solo egoismo il suo, che l’amore non c’entrava, perché lui l’amava, che con lei era ogni giorno su un ottovolante, che poi venne il loro bambino, un’inedita felicità gli provocava una felicità disse. Non era sufficiente, pensò lei quando le disse solo “Non sono pronto” e se ne andò di punto in bianco. Miriam si tormentò per giorni, non riusciva a darsi una spiegazione e ogni ricordo era un brivido che la riconduceva a quella intimità che avevano costruito, non solo il sesso, erano le parole che si dicevano, era lo slancio di baci e altre carezze, era la naturalezza con cui si raccontavano e si capivano. Era quella complicità che li faceva sembrare una coppia di lunga data eppure si conoscevano solo da cinque mesi.

La fotografia di zio Cleto le ricordava le sensazioni dei primi mesi senza Antonio, riviveva quella disperazione che ti tortura giorno e notte. Pensò a Edda, a quanto fossero inutili i suoi tentativi di sollevarle il morale mentre lei sprofondava senza reagire in una sua solitudine che in quei momenti soltanto le sembrò di capire.
Ci fu una notte, al quinto mese di gravidanza, che Miriam si era alzata di scatto e in dormiveglia aveva spalancato la finestra della sua stanza, fuori c’era la luna piena che illuminava gli alberi sulla strada, le luci nelle case erano tutte spente e sotto la sua finestra, quattro metri più in basso, la luce lunare riflessa dalla carrozzeria di una fila di macchine parcheggiate lì sotto. Un paesaggio notturno inedito, le parve per qualche istante, mai la città le era sembrata emanare una sua sconosciuta poetica. Con le mani aggrappate e la pancia appoggiata contro il davanzale, la gamba pronta a scavallare, Miriam penso che sì, era una giusta soluzione, un altro atto di liberazione poteva essere l’ultimo atto della sua vita, perché nel pieno della solitudine non c’era spazio per lei e per il bambino.

Ma a quel punto Giordano aveva iniziato a scalciare, le sembravano i piedi quelli che spingevano sullo stomaco e la spinta le arrivava fino al petto, un altro movimento nella parte basse del suo ventre, come un pesciolino che nuota da una parte all’altra della vasca, salì il singhiozzo, si staccò dal marmo e cominciò ad accarezzarsi la pancia. Piangeva, si disse, con gocce che anticipano un violento temporale di fine estate.

Così la fotografia dello zio Cleto diventò un pugno di coriandoli, sfogliandoli, li chiuse nel sacco verde della pattumiera, si assicurò che Giordano non si fosse svegliato e corse a buttare tutto nel cassonetto fuori al palazzo. Rientrò che in casa c’era un’atmosfera diversa, le sembrò che il disordine avesse ceduto a un bozzolo confortevole dove il pianto di Giordano, sveglio e affamato, le sembrò sostituire tutti i vuoti e le voragini di quelle storie di uomini, dissolvendo tutta la nostalgia rivissuta in quel pomeriggio, il primo pomeriggio che trascorrevano insieme a casa, il primo di una lunga serie con un uomo nuovo.

 


 

Valentina Risi, 36 anni di Palomonte in provincia di Salerno, è una conduttrice radiofonica di una emittente locale e da tre anni è stata eletta consigliere comunale nel suo paese. “Leggere, passeggiare e viaggiare -ci scrive- sono le mie attività preferite anche quando il tempo libero scarseggia”.  

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Filippo Scòzzari: la fantascienza nella nostra testa https://2020.passaggifestival.it/scozzari-passaggi-lassu-no/ Wed, 02 Sep 2020 10:39:01 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75338 Filippo Scòzzari presenta a Passaggi festival la sua antologia di racconti di fantascienza Lassù no (Coconino Press).

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Sabato 29 agosto, in un Pincio illuminato dai colori del tramonto, Filippo Scòzzari, uno dei più importanti artisti della scena italiana ed europea, ha presentato un’antologia di suoi racconti di fantascienza dagli anni 70 agli anni 2000: Lassù no, edito da Coconino Press. Scòzzari ha conversato nel corso dell’evento con il critico di fumetti Alessio Trabacchini.

Si tratta sì di una raccolta di racconti che vira, però, verso una graphic novel: la nuova edizione deluxe ha un formato differente rispetto alla precedente. Si tratta di racconti di fantascienza ma bisogna tenere a mente, nell’approcciarcisi, la visione della fantascienza di Scòzzari: secondo l’autore la fantascienza è nella nostra testa, non bisogna andare altrove, in altri mondi.

La molla

Cosa spinge un artista a disegnare e scrivere? Per Scòzzari il fumetto e la scrittura sono le bombe atomiche che puoi scatenare contro i tuoi nemici perché difficilmente questi potranno restituirti il favore. Per questo motivo libri e fumetti possono essere considerati anche l’arma del vigliacco perfetto. “L’essere adirati fortemente contro qualcuno costituisce una molla, una spinta irrefrenabile nella produzione artistica”, dice Scòzzari.

Delirio e perfezionismo

La poetica di Filippo Scòzzari è caratterizzata da una combo di delirio e perfezionismo. Secondo l’artista, infatti, il delirio costituisce l’elemento scatenante ma è necessario che  saperlo governare. L’opera di Scòzzari è, pertanto, caratterizzata da un governo perfetto, spasmodico e ferreo sulle creazioni “Ed è così che dev’essere altrimenti è troppo facile fare i matti”. Ne emerge una costante necessità di governare una materia ribollente di delirio.

Per quanto riguarda il genere, leggendo l’opera di Scòzzari, talvolta, si ha l’impressione che egli usi piuttosto un contro-genere. La sua è una fantascienza indubbiamente diversa:

“Dopo un’infanzia passata a leggere e guardare puttanate invereconde ho deciso di vendicarmi: non c’è bisogno di andare sulle stelle per trovare la fantascienza, noi siamo le stelle.”

Storie politiche

È inportante tenere a mente che tutte le opere del fumettista sono opere politiche: “Io disegagnavo e Bologna era in fiamme, io facevo la puntaalle mative ed i bravi ragazzi alzavano le barricate”. Nel bel mezzo del ‘77 bolognese Filippo Scòzzari aveva compreso il valore politico del fumetto:

“Prendere le manganellate è il modo migliore per nutrirsi di odio nei confronti della realtà, soprattutto quando non le puoi restituire. Il mio manganello era la matita, disegnare mi dava l’opportunità di mettere in atto delle sane vendette”.

Se il fumetto è in grado di leggere la realtà, L’opera di Scòzzari ha il merito di incidere su di essa “A quel punto la realtà reagisce facendo telefonate”, conclude il fumettista.

L’opera di Tommaso Landolfi

Fondamentale nell’opera di Scòzzari è l’influenza di Tommaso Landolfi. Trabacchini ammette che, dovendo spiegare ad una persona estranea al mondo del fumetto chi sia Scòzzari, citerebbe indubbiamente Landolfi. Una delle opere più note di Scòzzari fu proprio la versione a fumetti de Il mar delle blatte (uno dei racconti presenti nella raccolta Il mar delle blatte e altre storie di Landolfi).

Come andò la vicenda? Scòzzari lesse Cancroregina, rimase colpito dalla scrittura fina ed elegante anche se alla terza pagina lo giudicò una noia totale. Indispettito iniziò a sfogliare il librone e si imbatté ne Il mar delle blatte; pensò che quel racconto fosse stato scritto pensando a lui: lo percepì come una voce moderna che gli parlava dal passato. “Era, però, ignoto alle tribù che mi mantenevano”, continua Scòzzari, pertanto il fumettista decise di rimanere fedelissimo all’opera di Landolfi senza cambiare nulla e uscì in quattro puntate sul mensile francese Frigidaire. Il libro fu pubblicato senza mai essere pagato dai francesi, lo stesso Scòzzari fu ripagato con appena dieci copie dell’album. Per non pagare i diritti, inoltre, gli autori francesi non citarono neppure Landolfi in copertina.

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Cinzia Sciuto: la laicità come risposta al multiculturalismo https://2020.passaggifestival.it/cinzia-sciuto-laicita-risposta-multiculturalismo/ Tue, 01 Sep 2020 09:24:45 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=74994 Nella cornice sempre magica della Chiesa di San Francesco, si è svolto uno dei primi incontri di Passaggi Festival 2020. L’autrice Cinzia Sciuto ha presentato il suo libro Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo che era già stato pubblicato da Feltrinelli nel 2018, ma quest’anno è uscito nella collana Economica dello […]

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Nella cornice sempre magica della Chiesa di San Francesco, si è svolto uno dei primi incontri di Passaggi Festival 2020. L’autrice Cinzia Sciuto ha presentato il suo libro Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo che era già stato pubblicato da Feltrinelli nel 2018, ma quest’anno è uscito nella collana Economica dello stesso editore. A conversare con lei, il direttore di Passaggi Festival Giovanni Belfiori e il giornalista Marco Bracconi che poco prima, nella medesima cornice, ha presentato il suo libro La mutazione  (Bollati Boringhieri, 2020).

Un sottotitolo problematico

Quello di Cinzia Sciuto è un libro calato sui problemi del presente, che cita temi come immigrazione, femminismo e multiculturalismo. L’autrice ha confessato di aver posto un sottotitolo- Manifesto laico contro il multiculturalismo– che ha provocato diversi malintesi, ma che l’editore ha appoggiato per la capacità di aprire un dibattito su temi molto attuali. Il giornalista Bracconi ha confessato di averlo già letto in passato, ma di averlo riletto ora sentendosi spaventato dal fatto che in questo momento non si parla più tanto di certe tematiche, essendo tutti presi dalla grande emergenza sanitaria. Il libro di Cinzia Sciuto è un libro che si muove sul piano politico, da non confondere quindi con quello antropologico. Inoltre è un’opera che invita a non calarsi nella retorica della tradizione e del “si è sempre fatto così”.

Il multiculturalismo

Il libro di Cinzia Sciuto viene definito da Bracconi “un calcio negli stinchi” ad un modo di pensare tipico della sinistra, che sostiene il multiculturalismo e crede che ogni cultura debba avere un proprio posto contrattuale nella società. Cinzia Sciuto sfida il multiculturalismo, perché questo tende a considerare le varie culture come monoliti o oggetti netti e distinti. In realtà, le culture sono degli agglomerati che portano ognuna con sé una visione del mondo, delle spiegazioni, delle norme di relazione, delle tradizioni che a volte stridono con il progresso civile e politico. Sono quindi dei processi sociali in continua evoluzione e dare definizioni contribuisce a creare una solidificazione delle stesse. Oggi si tenta, attraverso l’essenzialismo, di manipolare una cultura e dire con certezza che cosa è e che cosa non è, favorendone la staticità.

Non esiste un’ identità culturale

Demolita quindi la definizione di cultura che porta in grembo il multiculturalismo, la tesi che emerge da parte dell’autrice è la non esistenza di un’identità culturale. Vero è che spesso tendiamo ad identificarci in una cultura e in nome di questa ci sentiamo minacciati da altre comunità e dalle loro diverse culture. A volte ci chiediamo fino a che punto la libertà individuale può essere messa da parte per rispettare “le norme” della comunità in cui viviamo o fino a che punto una religione possa dettare il mio comportamento. Tutto ciò è normale se si crede nell’esistenza di un’identità culturale, concetto che per Cinzia Sciuto non esiste. Infatti, nel suo personale esempio, dice di non voler dirsi parte di una cultura che è la stessa di alcuni esponenti politici con idee diametralmente opposte dalle sue, con condivide solo la nazionalità. O la stessa cultura italiana che nel 1981 tollerava ancora il delitto d’onore. Non esiste quindi una identità culturale, ma al più un’identità individuale. Il fulcro si sposta dai gruppi all’individuo.

La laicità come risposta al multiculturalismo

Il secondo capitolo del libro si intitola “Laicità come precondizione della democrazia”, quindi una condizione importante per permettere a chiunque di accedere allo spazio pubblico e partecipare alla vita politica alla pari con gli altri. Laicità non è il contrario di credere in una fede, ma è il contrario di fondamentalismo. La laicità è riferita a qualsiasi tematica, anche al di fuori della religione, è una risposta a qualsiasi situazione in cui un capo (vescovo, capo di partito) afferma che una persona abbia o meno un determinato diritto.

“Tornando alla laicità, essa non è affatto, dunque, nemica della fede. Anzi, in una società complessa, la laicità è la migliore amica della fede, o meglio: delle fedi. Sono (anche) i credenti […] ad avere molto da guadagnare da un contesto sociale nel quale la religione sia affare privato di ciascuno e lo Stato assicuri a tutti la libertà di praticare la propria fede ma anche di non praticarne nessuna, e più in generale garantisca a ciascuno […] i diritti fondamentali.”

[…]
“Non si tratta dunque per lo Stato di assumere un atteggiamento di mera indifferenza nei confronti delle diverse confessioni religiose, né tanto meno di svolgere una funzione di “arbitro” fra di esse, ma di garantire tutte quelle precondizioni – e sono numerose – affinché ciascun cittadino possa determinare in autonomia la propria vita e il proprio orizzonte di valori.”

L’Islam: non un solo credo

Il libro è strutturato in cinque capitoli. Il terzo è dedicato all’Islam. Bisogna partire dal presupposto che di Islam non ce ne è uno solo, ma ne esistono tantissime varianti, quasi “una per ogni musulmano vivente”. È scorretto pensare che la donna musulmana sia necessariamente una donna che porta il velo. Quest’ultimo è un tema attuale molto discusso, spesso con molto approssimazione. È necessario un dibattito aperto, senza tabù.
Innanzitutto quando si parla della questione del velo, non si parla di un mero capo d’abbigliamento, ma del significato che porta con sé. Coprire una donna nella religione ha da sempre significato modestia e, come si legge nella Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, implica una considerazione della donna come dominio dell’uomo. “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché è egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo”.
In secondo luogo, il velo non è di mera pertinenza dell’Islam, ma ci sono diverse religioni tra cui anche il cristianesimo. Quando se ne parla quindi, non ha senso categorizzarlo come un discorso islamofobico o razzista, ma è un discorso critico ad un elemento culturale che accomuna diverse credenze.

Velo e libertà di scelta

Quando si parla di velo spesso ci si sofferma sulla sua obbligatorietà o meno. Di fronte ad una donna che sceglie liberamente di metterlo è come se ci fosse la cessazione di ogni discussione. Eppure vanno sondate le condizioni di tale libertà. Se la donna è stata una bambina che ha subito pressione di vario genere da parte dei genitori musulmani o di altre minoranze in cui si è soliti mettere il velo, è vero che nessuno fisicamente la obbliga ma c’è tutto un contesto educazionale che ha esercitato una pressione su di lei. Cinzia Sciuto riporta infatti alcune frasi che si dicono alle bambine, come ad esempio “se non metti il velo i tuoi capelli bruceranno all’inferno”. Questo fa capire che, se cresciute in tale ambiente, sarà molto difficile poi scegliere con libertà di metterlo o non metterlo.
Comunque ci sono donne che hanno deciso di convertirsi in piena libertà, senza aver ricevuto un’educazione. Anche in questo caso c’è comunque un valore che quel velo ha e di cui si può parlare ed è necessario farlo, non per discriminare o per categorizzare, ma per cercare di capire. Perché una persona che porta con sé un simbolo di modestia della donna, può non essere nelle corde di alcune delle innumerevoli identità individuali.

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Metodo Montessori: libertà, indipendenza e autoeducazione https://2020.passaggifestival.it/metodo-montessori/ Mon, 31 Aug 2020 18:16:37 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=74931 il 31 agosto del 1870 nasceva l'ideatrice di uno dei metodi di insegnamento più usati al mondo.

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Metodo Montessori

Autoeducazione, indipendenza, libertà. Questi sono i principi cardine del Metodo educativo Montessori, ideato e promulgato dalla pedagogista Maria Montessori, della quale oggi si celebra il centocinquantesimo anniversario dalla sua nascita.

Il carisma di Maria Montessori

Non esente da critiche, il Metodo Montessori ha riscosso un grande successo nazionale e internazionale, tanto che, ancora oggi, esistono nel mondo circa 65 mila istituti montessoriani.

I motivi di questa intramontabile fama sono da ricercarsi, oltre che nel metodo educativo stesso, anche nella personalità carismatica della Montessori. La pedagogista è stata infatti la terza donna italiana a laurearsi in medicina ed è stata anche un’oppositrice del fascismo, tanto che è stata esiliata in Olanda nel 1934, dove è deceduta nel 1952. Nel corso della sua vita ha poi scritto numerosissimi libri tra cui Educare alla libertà e Mente del bambino. Mente assorbente.

Il successo del Metodo, però, è dovuto anche al virtuoso girotondo di dicerie formatosi nel corso degli anni intorno ad esso, rendendo progressivamente il Metodo Montessori appannaggio di una classe ristretta e privilegiata. Di qui una delle maggiori critiche contemporanee mosse al Metodo; il fatto cioè che i successi professionali dei pupilli di molte famiglie benestanti, cresciuti tra le più illustri cerchie sociali e una copertura considerevole di denaro alle spalle, possano non essere dovuti esclusivamente alla frequentazione delle scuole montessoriane.

Metodo Montessori: quasi come leggere un libro

Bando però alle accuse, spesso infondate, è invece doveroso spezzare alcune lance in favore di questa scuola alternativa e rivoluzionaria, che si oppone ai dettami di quella tradizionale, come l’imposizione di regole dall’alto, l’apprendimento passivo, la limitazione delle libertà decisionali e di pensiero dello studente.

Si potrebbe paragonare il Metodo Montessori all’apprendimento derivato dalla lettura di un libro. La prima fase, quella decisionale, è infatti quasi totalmente autonoma. Certo, talvolta è necessario essere spinti alla lettura, specialmente nei primi anni di vita. Oppure è possibile che l’ambiente circostante o i consigli di altre persone influenzino la scelta. Ma la decisione finale spetta solo e soltanto al lettore.

Allo stesso modo, con il metodo Montessori il bambino è sì indotto a frequentare quella scuola, a seguire le lezioni, a stare con i compagni. È però anche responsabilizzato in tutte le sue scelte, che devono essere autonome e spontanee: dalle lezioni da seguire, ai compiti da svolgere a casa, ai compagni con cui stare. Il bambino, per esempio, può anche trascorrere il tempo con compagni di età diverse. Si renderà poi conto da solo che gli argomenti trattati non sono alla sua portata, oppure che la semplice presenza dei suoi coetanei è migliore. Proprio come quando ci si approccia ad un libro pensato per fasce di età diverse o per persone con competenze diverse.

L’autoeducazione del Metodo Montessori

La lettura di un libro, poi, è l’emblema dell’autoeducazione. L’atto del leggere, nella sua lentezza, nella sua richiesta di concentrazione e, ovviamente, per le informazioni presenti nel libro stesso, è un grande stimolo all’apprendimento. Proprio come il Metodo Montessori, che insegna al bambino la lentezza, l’attenzione e la concentrazione, o comunque a seguire i suoi personali tempi, per far sì che le sue azioni siano svolte al meglio.

Nell’insegnamento montessoriano, poi, il bambino riceve molte nozioni, da quelle più tradizionali, come il riconoscimento dei colori, la lettura e la scrittura, sino a quelle più pratiche o quotidiane, come sparecchiare il proprio piatto dopo aver mangiato, prendersi cura di piante e animali, stare a contatto con la natura.

L’importanza dell’insegnante

Un libro, però, ha sempre un autore. Questo, oltre a fornire determinate informazioni, guida il lettore tra le pagine e spesso suggerisce le chiavi interpretative della storia. In alcuni casi è più partecipe, in altri si nasconde alla perfezione tra le parole, ma è sempre presente. L’insegnante montessoriano, allo stesso modo, deve essere una guida presente, che vigila sugli studenti e suggerisce loro la via più giusta da intraprendere. Non deve, però, essere invadente, né deve rimproverare sterilmente gli alunni dall’alto del suo sapere.

Deve invece porsi allo stesso piano spiegando loro, in modo ragionevole, il motivo per cui, a suo parere, l’alunno abbia commesso un errore, stimolandolo all’autocorrezione. Una piccola distrazione dal lavoro, per esempio, è tollerata, così come può esserlo una distrazione dalla lettura. Il libro, così come la scuola e i compagni, rimane sempre lì, pronto a riaccogliere lo studente senza gravi conseguenze, come voti bassi o giudizi negativi.

Nella scuola montessoriana non ci sono i voti

Anzi, nella scuola montessoriana i voti non esistono affatto e gli alunni sono portati ad implementare le proprie capacità di autovalutazione. Tornando alla metafora del libro, il lettore sa che saltando le pagine potrebbe velocizzare la lettura. Questo però renderà la comprensione del libro più difficoltosa e, talvolta, potrebbe persino allungarne il processo.

O ancora: talvolta il lettore può decidere di non finire un libro. Questo non è sbagliato in sé; semplicemente priverà il lettore di ulteriori conoscenze o della soddisfazione di aver portato a termine qualcosa. Lo stesso varrà per i compiti a casa o per il lavoro in classe dello studente montessoriano. Se non implementati, al bambino verranno semplicemente comunicate le conseguenze delle sue azioni, piuttosto che essere bollato con un semplice voto numerico.

Il Metodo Montessori e il distacco dalla realtà

La realtà, voi direte, è però più complessa della semplice lettura di un libro. Ogni bambino ha una personalità diversa, così come ogni insegnante. Ogni famiglia predilige, a casa, metodi di educazione costruiti sulle proprie esigenze e i paesi in cui sono sorte le scuole montessoriane hanno ognuno background culturali propri.

Inoltre, e questa è la seconda comune critica al Metodo, la vita post-scolastica sarà molto meno accondiscendente con gli studenti delle scuole montessoriane, i quali rischiano di trovarsi catapultati in realtà lavorative e sociali che non ammettono decisioni autonome, errori o autocorrezioni, che richiedono velocità, prontezza e capacità di adattamento.

Non per questo, però, non deve esistere una realtà diversa, che propone un’educazione non tradizionale e che, se accostata all’esperienza obbligata del mondo “reale”, può regalare al bambino un ritaglio di spazio proprio, di apprendimento e di evasione. Proprio come può fare un libro.

 

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Giovanni Allevi e la via dell’innovazione https://2020.passaggifestival.it/allevi-passaggi-revoluzione/ Mon, 31 Aug 2020 11:02:44 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75198 Ad aprire la Rassegna Grandi Autori nell'ultima giornata di Passaggi Festival è stato il musicista e compositore Giovanni Allevi che ha presentato il suo libro Revoluzione edito da Solferino. A conversare con l'autore c'era Massimo Sideri del Corriere della Sera.

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Allevi-Revoluzione-passaggi-Festival

Ad aprire la Rassegna Grandi Autori nell’ultima giornata di Passaggi Festival è stato il musicista e compositore Giovanni Allevi che ha presentato il suo libro Revoluzione edito da Solferino. A conversare con l’autore c’era Massimo Sideri del Corriere della Sera. Davanti ad un pubblico coinvolto ed entusiasta, Allevi ha toccato molteplici tematiche. A fine incontro il compositore ha coinvolto la piazza gremita nell’esecuzione di un canto gregoriano.

Revoluzione

Giovanni Allevi è “un genio poliedrico”, così lo definisce Sideri ad inizio incontro ed andando avanti chi già non lo sapesse se ne rende conto.  Il titolo del libro Revoluzione viene presentato come un titolo “Darwiniano”: la musica è, infatti, secondo Allevi, evoluzione ed innovazione:

“La musica è sempre stato un conflitto continuo tra chi voleva difendere lo status quo e chi voleva cambiare. Indubbiamente, però, l’innovazione richiede più coraggio”.

Si tratta di un libro autobiografico: “Il manuale di un innovatore” viene definito sul palco.

La disubbidienza pacifica.

“Ma cosa significa esattamente essere un innovatore? Si tratta dell’ebrezza di uscire fuori dai binari prestabiliti…che è meraviglioso ma al tempo stesso può essere percepito come insufficiente”: Allevi ammette di essere ancora in conflitto rispetto a come comportarsi nei confronti dei grandi del passato. In ogni caso andare oltre, superare lo status quo per intraprendere la via del cambiamento sembra essere la strada più seducente per il compositore. Essere anticonformisti può essere spaventoso ma anche una liberazione: questo emerge dalle parole di Allevi che ammette di aver avuto la dimostrazione di ciò durante il lockdown:

“Viviamo in un mondo estremamente conformista ma durante la quarantena, pur nella drammaticità dell’esperienza, siamo andati oltre la normalità, siamo diventati in qualche modo straordinari. Io sono ossessionato dall’opinione degli altri ma in questo periodo ho sentito che potevo essere veramente me stesso è stato un sollievo!”

Ogni rivoluzione parte dal vuoto

E proprio durante la quarantena nasce la figura chiave del libro di Allevi: Maddalena è la vera protagonista dell’opera. Si tratta di una voce che parla ad Allevi e gli suggerisce da dove ripartire: il vuoto è la chiave. “In realtà si tratta di una pianta della quale si è preso cura durante il lockdown”: il libro è la raccolta di questi dialoghi con la pianta . Incredibile anche la scelta del nome di questa sua protagonista: inizialmente causale, ma dopo aver completato la stesura del libro, Allevi si è reso conto che stavano rifiorendo gli studi su Maria Maddalena, per questo motivo l’opera inizia con una frase sul vangelo agnostico di Maria Maddalena. ecco che questa incredibile figura femminile, simbolo di rinascita e riscatto, confida ad compositore il suo segreto: ogni rivoluzione parte dal vuoto. Maddalena era, infatti, una pianta arida, secca che del vuoto si è nutrita e che dal vuoto ha ricominciato.

Musica ed Intelligenza artificiale

Un altro tema trattato sul palco è quello dell’intelligenza artificiale e di come essa stia in qualche modo tentando di cambiare la musica. Allevi racconta un aneddoto sull’incompiuta di Schubert. “Schubert era giovane quando ha scritto l’incompiuta, il suo problema è stato quello di aver vissuto nel momento di massima esplosione di Beethoven. Confidò ad un amico di aver scritto una sinfonia ma di non volerla finire perchè tanto il genio Beethoven l’avrebbe oscurata”. Il problema di Schubert, secondo Allevi, era semplicemente quello di non essere in linea con il proprio tempo perché già parte di quel mondo romantico che si sarebbe imposto successivamente:”Ecco il dramma dell’innovatore!”

Ritornando all’Incompiuta, qualche anno fa Allevi fu invitato a Londra a sentire il completamento della sinfonia generato da un’intelligenza artificiale. Il terzo e quarto movimento sembrarono al compositore perfetti ma, ascoltando più profondamente, si accorse che a mancare erano proprio quelle meravigliose melodie presenti nei movimenti di Schubert, quelle melodie che erano sopravvissute attraverso i secoli. Allevi aveva trovato quel qualcosa di irriducibile nell’essere umano che un computer non potrà mai creare:

“L’essere umano possiede, a differenza del computer, il senso della morte: ed ecco che l’artista partorisce l’opera come una reazione a questo sgomento nei confronti del senso di caducità. E questo sentimento di rivalsa è proprio dell’arte ma anche della ricerca scientifica.”

 

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Corriere della Sera – Passaggi, il finale. In cinque giorni 15.000 presenze https://2020.passaggifestival.it/corriere-della-sera-passaggi-il-finale-in-cinque-giorni-15-000-presenze/ Sun, 30 Aug 2020 22:00:52 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75202  

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Giorgio Zanchini: lezioni di giornalismo culturale https://2020.passaggifestival.it/zabchini-barbato-passaggi-2020/ Sun, 30 Aug 2020 11:05:08 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75184 Sul palco di Piazza XX settembre il giornalista Giorgio Zanchini presenta il suo libro Cielo e Soldi e riceve il premio Andrea Barbato.

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Ieri sera sul palco in Piazza XX Settembre è stato consegnato il Premio Andrea Barbato per l’edizione di Passaggi 2020 al giornalista Giorgio Zanchini. Nell’ambito della Rassegna Grandi Autori, Zanchini, ha presentato, conversando con Lorenzo Pavolini, il suo ultimo libro Cielo e Soldi (Aras).

Il tramonto di una stagione

Il libro parla di un mondo che cambia, si tratta del tramonto del ‘900: il tramonto di una stagione, di una cultura, di punti di riferimento nei quali il giornalismo è cresciuto. Zanchini sostiene che ciò che siamo vivendo è una crisi del giornalismo non solo culturale. Zanchini riporta nel suo libro il pensiero di Massimiliano Panarari secondo il quale la crisi del giornalismo sarebbe soprattutto frutto di una crisi della scena pubblica che vede il compiersi di un individualismo anche nel modo di consumare cultura.
Il lavoro del giornalista culturale diventa, pertanto, sempre più complesso. Una delle sfide più importanti sta proprio nel capire come trovare i nuovi lettori.

Nuovi lettori

La rivoluzione digitale ha cambiato davvero tutto nel modo di fare informazione. Nel ‘900 l’offerta era facilmente leggibile: il quotidiano cartaceo era “Uno straordinario fatto organizzativo” che ci dava un ordine nella lettura delle cose del mondo. Oggi i consumi dei più giovani e, più nello specifico, il modo di informarsi delle nuove generazioni è totalmente diverso, a cambiare è, indubbiamente, anche il modo di partecipare alla produzione dei contenuti culturali. Lo strumento che ha cambiato sostanzialmente il modo di informarsi è lo smartphone “Che ha, però, portato anche libertà, partecipazione ed emancipazione alla radio”, dice Zanchini.

La televisione digitale e la frammentazione dell’offerta

Con la televisione digitale e la frammentazione dell’offerta fare informazione è, per certi versi, più facile, sostiene Zanchini: “La cultura trova delle case molto ospitali“, si tratta di canali culturali che rimangono indirizzati ad un pubblico più di nicchia. La televisione generalista deve però continuare a tener conto dei numeri, “La capacità che hanno avuto alcune trasmissioni generaliste è stata riuscire a tenere insieme qualità, divulgazione ed intrattenimento”, afferma Zanchini, “È un modo di fare spettacolo tipicamente anglosassone, la spettacolarizzazione del sapere”.

Ricucire lo strappo

Pavolini fa notare come un elemento molto presente nell’informazione culturale sia la storia: vediamo il racconto storico sopravvivere e guadagnare molta centralità. “Si può pensare che possa essere il racconto della storia a ricucire lo strappo tra le nuove generazioni? Non serve per forza ad ogni generazione conoscere la propria storia?”, chiede Pavolini a Giorgio Zanchini. Il giornalista parla di una generazione caratterizzata da una grandissima orizzontalità e velocita ma anche da una certa carenza di verticalità e profondità: in questo contesto la storia potrebbe essere effettivamente lo strumento in grado di legare le generazioni. Zanchini racconta come, oggettivamente, il giornalismo italiano sia stato sempre attento alla dimensione storica.

Si può parlare di cultura solo se c’è controversia

Zancini e Pavolini continuano parlando di come la seconda metà degli anni ’80 sia stata l’età dell’affermazione della televisione commerciale, che indubbiamente ha imposto un tipo di linguaggio legato alla controversia, alla lite. Ciò però dipenderebbe anche dal fatto, dice Zanchini, che gli Italiani non hanno la cultura del dibattito regolamentato. L’elemento televisivo avrebbe, inoltre, secondo il giornalista, havrebbe corroso la qualità del discorso politico ed i social media avrebbero dato man forte a questo aspetto.

La mediazione

Il giornalista culturale è una figura di mediazione: “Un buon mediatore culturale deve connettere i significati”, dice Giorgio Zanchini. Si è persa la figura del critico militante che faceva da mediatore, “Oggi sulla base di cosa facciamo la nostra scelta nel consumare cultura?”, sicuramente la figura dell’influencer si è incanalata in questo sistema muovendo il mercato molto più di quanto possa fare un critico. Cosa deve fare allora un giornalista avvertito e capace?:

“Mettere in connessione tutti questi mondi, presidiare i luoghi in cui c’è circolazione di idee e segnalare i mondi che lui, in ragione della sua preparazione, frequenta e conosce e quindi consigliare. Deve essere un filtro avvertito.”

Il mediatore in un certo senso è, secondo Zanchini, equiparabile ad un genitore o ad un insegnante che dia verticalità ad una generazione, quella dei giovani di oggi, in grado di usare sapientemente molteplici strumenti culturali. Questo compito, conclude il giornalista, lo sta già adempiendo la scuola: “È lì che bisogna investire”, conclude.

La consegna del Premio Andrea Barbato

Alla fine dell’incontro salgono sul palco Ivana Monti Barbato, Nando Dalla Chiesa e Ludovica Zuccarini per la consegna del Premio giornalistico Andrea Barbato, per il merito di aver esercitato la professione giornalistica con sapienza, onestà e competenza.

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