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Oggi 25 marzo, per la prima volta, si celebra il Dantedì, giornata dedicata alla figura e all’opera di Dante Alighieri per la quale il Miur, il Mibact e la Rai hanno organizzato, visti i decreti restrittivi, cicli di letture e di lezioni solo virtuali.
Si è scelto il 25 marzo perché proprio un 25 marzo fu il giorno in cui Dante scrittore immaginò se stesso pellegrino all’inizio di un cammino che lo avrebbe portato ad attraversare i tre regni dell’oltremondo: l’imbuto infernale chiuso da Lucifero con i suoi vapori tossici e le grida lancinanti dei dannati, la montagna del Purgatorio affollata dalle anime penitenti e non ancora pronte a lasciarsi alle spalle la vita terrena, i cieli concentrici e sonanti del Paradiso illuminati dalla grazia angelica di Beatrice e dalla beatitudine ineffabile della contemplazione di Dio, del suo sguardo insondabile che dà senso all’insensato, anche se questo senso sfugge sempre pienamente alla ragione umana.
Dell’impossibilità di dire, dell’impossibilità di capire e della necessità di abbandonarsi alla fede, una fede che è soprattutto disperata ricerca di giustizia anche nell’ingiusto, Dante si è fatto interprete in un’ammissione di inadeguatezza che permea l’intera Commedia, inadeguatezza del poeta prima ancora che dell’uomo.
Dantedì, celebriamo Dante non per la perfezione dei versi, ma per la stringatezza evocativa
La poesia dantesca è, infatti, un corpo plastico e cangiante: si adatta mimeticamente alla materia, ma, se oggi celebriamo Dante, non è per la perfezione dei suoi versi, ma per la loro stringatezza evocativa, per la loro consistenza visiva, per la loro resistenza all’artificio, per il loro ostinato rifiuto di sperperare le parole, i suoni, persino i sospiri.
Dante non tratta mai la lingua come fosse una stoffa da inamidare o un gingillo da tenere in una teca: niente è venerabile negli idiomi, tutto è da inventare, sperimentare, persino deformare, tanto più quando il linguaggio usato, il volgare letterario italiano, è ancora libero da modelli prepotenti.
E così l’Inferno, il capitolo più doloroso di questo viaggio di ricostruzione personale dopo la depressione, la disillusione, la caduta degli idoli politici e personali, la più cinematografica delle tre cantiche, è un tripudio di contorcimenti e crudezze, con la ferocia della sofferenza senza ritorno e delle sue innumerevoli cacofonie incastrate sulla punta di un calamo affilatissimo.
Nel Purgatorio tutto si distende, le note cromatiche volgono al pastello, la lingua si fa duttile e media, sospesa fra astrazioni metafisiche e nostalgie terrene. Il Paradiso, luogo poetico più inaccessibile, è trionfo della rarefazione e i versi danteschi, remoti e sublimi, si sintonizzano con le sfere dell’inesprimibile.
Dantedì, non uno ma mille Dante
Di Dante, va ricordato sempre, non ce n’è uno, ma mille. Il giovane Dante che compone poesie alla moda stilnovistica, che sogna di discorrere d’amore e amicizia in un vascello in mezzo al mare, il Dante, giù più maturo, che riflette sull’esperienza d’amore – perché la vita, ci ha insegnato, inizia con l’amore, che questo arrivi a nove anni o a novanta –, il Dante che dà sfogo a sentimenti di vendetta e a tentazioni di sadismo erotico nei confronti dell’implacabile Petra, il Dante più austero e meditabondo dei trattati, il Dante che teorizza la necessità di separare religione e politica, il Dante visionario del suo poema di più mostruosa bellezza, quell’opera-mondo in cui la condanna del peccato non si traduce mai in condanna del peccatore, perché la differenza la fa sempre l’uomo: sono tutti questi e anche di più i Danti che noi oggi festeggiamo.
E, tra questi tanti Danti, uno forse c’è più caro di tutti: quello ferito dalla sua Firenze scombussolata dalle lotte fratricide, la Firenze che l’ha tradito e a cui riserva i suoi versi più velenosi perché l’amore donato è tornato offeso, ma non per questa asimmetria qualcuno può smettere di amare e questo Dante lo sapeva bene.