di Virgilio Dionisi
Tutta l’informazione televisiva era incentrata sull’epidemia; d’altra parte erano cessate le gare sportive, gli incontri culturali, i festival, i raduni, gli spettacoli teatrali, le uscite di nuovi film nelle sale cinematografiche; tutti gli eventi che prevedevano assembramenti di persone erano stati annullati o rinviati a tempi migliori; di cos’altro si poteva parlare in tv? Gli ospiti dei talk show erano cambiati, al posto di politici e criminologi, era la volta di virologi, infettivologi, epidemiologi; non erano però scomparsi gli economisti, chiamati a valutare gli effetti delle misure di contrasto all’epidemia sulle attività produttive.
Visto che diversi programmi erano stati cancellati dal palinsesto, si rimandarono in onda quelli registrati prima del contagio; la mancanza di freschezza era rivelata dalla presenza del pubblico e dalla vicinanza tra le persone.
I canali televisivi continuavano a trasmettere documentari su tanti posti belli da visitare ma la gente aveva smesso di viaggiare e buona parte di voli erano stati cancellati. Quotidianamente, alla stessa ora, la televisione trasmetteva un bollettino della Protezione Civile sull’emergenza sanitaria.
“I venditori di giornale …si spanderanno per tutta la città, porgendo a braccio teso i fogli su cui spicca la parola “Peste” […] Nonostante la crisi della carta, che diventa sempre più acuta e ha costretto certi periodici a ridurre il numero delle pagine, è stato fondato un altro giornale, il Corriere dell’epidemia, che si propone d’informare i nostri concittadini, con una preoccupazione di scrupolosa obiettività, sui progressi o regressi della malattia; di fornirgli le testimonianze più autorevoli sul futuro dell’epidemia; di offrire l’appoggio delle sue colonne a tutti coloro, noti o ignoti, che sono disposti a lottare contro il flagello; di sostenere il morale della popolazione, di
trasmettere le disposizioni delle autorità, e, in una parola, di raccogliere ogni buona volontà per lottare efficacemente contro il male che ci colpisce” (*)
Si dibatteva sul tasso di letalità della malattia e sull’età delle vittime. L’età media delle persone decedute in Cina era di 49 anni, molto più elevata in Italia, uno dei paesi con più anziani al mondo. Diverse figure di punta del mondo dello spettacolo lanciavano appelli dalla radio e dalla televisione; brevi spot in cui si comunicava quali erano i comportamenti che la popolazione doveva tenere, primo tra tutti: restare a casa.
“ … Tarrou e Rieux parlavano di una guarigione inattesa che si era verificata nel reparto di quest’ultimo.
«Uno su dieci: ha avuto fortuna», diceva Tarrou. «Bene», disse Cottard, «ma non era peste». Lo assicurarono che si trattava proprio di questa malattia. «Non è possibile, se è guarito; lo sapete meglio di me, la peste non perdona». «In generale, no», disse Rieux, «ma con un po’ di ostinazione si hanno delle sorprese». Cottard rideva. «Non parrebbe; avete sentito le cifre, stasera?» Tarrou che guardava il possidente con benevolenza, disse che conosceva le cifre, che la situazione era grave, ma questo cosa significava? Significava che occorrevano misure ancora più straordinarie. «Ma le avete già prese, ormai!» «Sì, ma bisogna che ciascuno le prenda per conto suo».” (*)
Veniva messo in evidenza il lavoro in prima linea dei medici e degli infermieri impegnati a curare
i casi gravi con turni massacranti.
“Da tali cedimenti Rieux poteva giudicare della sua stanchezza. […] per il resto, non aveva molte illusioni, e la stanchezza gli toglieva quelle che ancora conservasse: sapeva, infatti, che per un periodo di cui non si scorgeva il termine, il suo compito non era guarire. Il suo compito era diagnosticare: scoprire, vedere, descrivere, registrare, poi condannare, questa era la sua parte. Delle spose gli prendevano il polso urlando: «Dottore, gli dia la vita.» Ma lui non era là per dare la vita, era là per ordinare l’isolamento. A che serviva l’odio che allora leggeva sui volti? «Lei non ha cuore», gli avevano detto un giorno. Ma sì, ne aveva uno; gli serviva a sopportare le venti
ore al giorno in cui vedeva morire uomini fatti per vivere; gli serviva a ricominciare ogni giorno. Ormai, aveva proprio quanto cuore bastava per questo; e come sarebbe bastato a dare la vita?”
(*)
Negli ospedali il numero delle persone in cura era via via aumentato e in diversi casi, come negli ospedali di Marche Nord, la richiesta di terapia intensiva superava il numero di posti disponibili.
“«L’epidemia va troppo in fretta?» domandò Rambert. Rieux disse di no, che non era questo, e anche la curva delle statistiche saliva meno in fretta; semplicemente i mezzi per lottare contro la peste non erano numerosi abbastanza” (*)
A volte medici e infermieri erano loro stessi vittime del morbo.
“Ma il più pericoloso effetto dell’esaurimento, impadronitosi a poco a poco di tutti coloro che continuavano la lotta contro il flagello […] avevano allora l’inclinazione a evitare tutti i gesti che non fossero assolutamente indispensabili, e che sembravano sempre superiori alle proprie forze. Per tal via questi uomini giunsero a trascurare sempre più frequentemente le regole igieniche che avevano codificato, a dimenticare alcune delle numerose disinfezioni, che dovevano praticare su se stessi, a correre talvolta, senza essere premuniti contro il contagio, da malati affetti da peste polmonare.” (*)
Sui social non mancavano le fake news, ad esempio su come combattere il coronavirus con metodi casalinghi: mangiando l’aglio, assumendo la vitamina C, stando al sole, bevendo acqua calda.
“… si notava un numero straordinario di stoffe gommate e lucenti. Infatti i giornali avevano riportato che duecent’anni prima, durante le grandi pestilenze del Mezzogiorno, i medici si rivestivano di stoffe d’incerata, per preservarsi dal contagio. I negozi ne avevano approfittato per liquidare uno stock d’abiti fuori moda, grazie ai quali ciascuno sperava di nell’immunità” (*)
Tutte le energie del governo nazionale e di quelli delle regioni erano concentrate sull’emergenza sanitaria. Una serie di decreti e di ordinanze erano stati emanati nel giro di poche settimane.
“Nello stesso giorno, durante una riunione, i medici sfiniti, davanti a un prefetto disorientato, avevano domandato ed ottenuto nuove misure per evitare il contagio, che avveniva da bocca a bocca nella peste polmonare.” (*)
L’11 marzo, in seguito ai colloqui e alle pressioni dei presidenti delle regioni e dei sindaci, il Presidente del Consiglio aveva firmato un decreto che imponeva una stretta su tutta l’Italia, fissando pene pecuniarie e detentive. Poi, nel decreto del 24 marzo le sanzioni pecuniarie vennero sensibilmente innalzate.
“I giornali pubblicarono decreti che rinnovarono il divieto di uscire e minacciavano di prigione i
contravventori” (*)
Una delle misure più importanti per combattere l’epidemia, in attesa della creazione di un vaccino, era il distanziamento sociale; il modo migliore per ottenerlo era stare a casa. A non accettare di stare chiusi dentro quattro mura furono i carcerati, proprio loro che avevano una sentenza o un processo in corso ad imporlo. Il sovraffollamento delle carceri e soprattutto l’annuncio di un blocco delle visite aveva scatenato l’insurrezione contemporaneamente in tutte le prigioni italiane. Erano stati provocati incendi nelle celle, vandalizzate le infermerie con furti di metadone che avevano provocato alcuni decessi per overdose. Da un carcere foggiano erano evasi numerosi prigionieri.
“... nonostante l’isolamento di certi detenuti, una prigione è una comunità; e ben lo si prova questo, ché nella nostra prigione municipale i guardiani, nella stessa misura dei prigionieri pagavano il loro tributo alla peste, tutti quanti, dal direttore sino all’ultimo detenuto, erano condannati, e forse per la prima volta un’assoluta giustizia esisteva nella prigione.” (*)
Morte ma anche necessità di continuare a vivere. Alcuni più di altri soffrivano per l’impossibilità di girare per il territorio. Ad esempio, i birdwatcher erano disperati; non potevano fare birdwatching proprio ora che iniziava il passo primaverile. Visto che i luoghi che abitualmente frequentavano (anse di fiumi, paludi, boschi) gli erano preclusi, in tanti, da tutta Italia, avevano aderito alla proposta di fare birdwatching a km zero, dalle finestre e dai balconi della propria abitazione. Si misero a passare ore ad osservare e ad ascoltare ciò che si muoveva tra le cime degli alberi e nell’intrico degli arbusti dei propri giardini, a scrutare le piccole porzioni di cielo libere. Nelle mail che si scambiavano gli avvistamenti fioccarono. Qualcuno per migliorare le proprie performance di avvistamento era persino salito sul tetto di casa. Naturalmente in questo gioco/gara non avevano tutti le stesse possibilità, i birders che abitavano nel centro di Milano non avevano le stesse opportunità di quelli le cui case si affacciavano su aree aperte e non urbanizzate.
“… la peste tenne la città ripiegata su se stessa […] stormi silenziosi di stornelli e di tordi, venendo dal Sud, passarono altissimi, ma girarono intorno alla città, come se il flagello […] li tenesse a distanza” (*)
A parte i negozi di generi alimentari e le farmacie, gli altri esercizi commerciali, compresi i bar, erano stati chiusi.
L’invito/ordine di restare a casa nel giro di pochi giorni aveva dato i suoi frutti. Le vie si erano spopolate. Code solo davanti a supermercati, uffici postali e farmacie, ma quelle file erano il frutto di ingressi contingentati e di distanziamento.
“Sui viali del centro non c’era la solita folla: alcuni passanti si affrettavano verso lontane dimore, nessuno sorrideva.” (*)
Anche se negli ospedali la carenza di mascherine continuava, per le strade quasi tutte le persone ormai le indossavano – all’inizio del contagio c’era stata la corsa per accaparrarsele fino all’esaurimento delle scorte.
Molti di quelli che non ce le avevano, sfruttando il fatto che fosse ancora marzo, tenevano la sciarpa a coprire naso e bocca.
“E il vento sollevò nubi di polvere e di carta che battevano sulle gambe dei passanti divenuti più rari. Li si vedeva frettolosi per le strade, curvi in avanti, con un fazzoletto o la mano sulla bocca.” (*)
Le mascherine le indossavano quasi tutti, nonostante che l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandasse di indossarle solo alle persone sospettate di aver contratto il coronavirus e a chi si prende cura di loro. Non la riteneva necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie.
“Tarrou fece entrare Rambert in una stanza piccolissima, tutta piena d’armadi. Egli ne aprì uno, trasse da uno sterilizzatore due maschere di garza idrofila, ne porse una a Rambert invitandolo a coprirsene. Il giornalista domandò se servisse a qualcosa, e Tarrou rispose di no, ma che dava sicurezza agli altri” (*)
Io ero quello in famiglia incaricato della spesa. La prime volta che scorsi poche persone in fila davanti al supermercato rinunciai sdegnato. I giorni successivi, con rassegnazione, prendevo il mio numero e attendevo con decine di persone in fila davanti a me. Oltre alla spesa, l’altro motivo per cui uscivo di casa era fare visita alla mia anziana madre che viveva da sola nel centro storico di Fano. In bici attraversavo una città svuotata. Deserta la Piazza XX Settembre, deserto il Corso Matteotti. I manifesti pubblicitari di spettacoli teatrali annullati e quelli di offerte al supermercato già scadute non erano stati rimossi. Si rivedevano dei gatti nella stradina che conduce all’abitazione di mia madre; se ne stavano tranquilli nel mezzo del selciato che si era liberato dal calpestio umano. Ora che il traffico era drasticamente diminuito, a Fano la centralina che monitorava l’inquinamento atmosferico rilevava un crollo delle concentrazioni delle polveri sottili, ma altro che decrescita felice, il contagio che non si arrestava e le conseguenze sull’economia facevano venire in mente scenari da brivido.
Un giorno andai in bicicletta a comperare pesce nella bancarella al porto, l’unica rimasta aperta dopo la chiusura della pescheria in Piazza delle Erbe. Percorrendo la passeggiata della spiaggia Sassonia il mio sguardo cadde sugli stabilimenti balneari ancora chiusi, pensai alle passate polemiche legate all’erosione marina che aveva sottratto qualche fila di ombrelloni. Nuove scogliere artificiali sarebbero state in grado di arrestare l’erosione marina, ma cosa sarebbe successo se non si trovava una barriera capace di fermare l’epidemia prima dell’estate? E quello del turismo balneare era solo uno dei tanti settori su cui si basa la nostra economia. Tutti confinati in casa. La tv trasmetteva dei flash mob, i condomini di interi palazzi cantavano tutti insieme, ma ognuno dal proprio balcone, dalla propria finestra, separato dagli altri.
“… la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto quanto comportava di paura e di rivolta.” (*)
I bollettini quotidiani della Protezione Civile rilevavano che il numero dei contagiati e delle persone decedute per il il Covid-19 continuava a salire. Nella sola Lombardia il numero delle vittime superò quello della Cina, primo focolaio della pandemia; però alcuni infettivologi, interpretando le curve dei nuovi infetti e dei decessi, fecero notare che il tasso d’incremento stava diminuendo, che c’era una «decrescita degli aumenti»; questo ossimoro accese una prima fievole speranza.
“Da un giorno all’altro, il numero dei morti, è vero, non aumentava […] Di regola, e secondo il pensiero delle personalità competenti, era un buon segno; il grafico dei progressi della peste, con la continua salita e il lungo piano che le succedeva, sembrava del tutto consolante al dottor Richard, a esempio. «E’ un buono, eccellente grafico», diceva, giudicando che la peste avesse raggiunto quello che lui chiamava un pianerottolo. Ormai non poteva che decrescere. […] il dottor Richard fu portato via anche lui dalla peste, e precisamente sul pianerottolo della malattia” (*)
“Resta a casa”, l’invito martellante veniva continuamente ripetuto. In televisione e nei giornali non si demonizzavano solo i comportamenti degli irresponsabili che ancora si assembravano, questi venivano accomunati a coloro che uscivano all’aria aperta per fare una passeggiata in solitudine, rinunciando ad ogni occasione di socialità. Dietro a queste spinte, il Ministro della Salute il 21 marzo emanò un’ordinanza che diede
un’ulteriore stretta alle attività motorie: le passeggiate in solitudine erano consentite solo in prossimità della propria abitazione. Ormai l’intero popolo italiano era agli arresti domiciliari. Oltre alle passeggiate, qualcuno fece
notare che anche il cantare dai balconi dei condomini era disdicevole, strideva con le immagini dei camion militari che trasportavano le bare fuori dalla provincia di Bergamo, la più colpita d’Italia: il forno crematorio di Bergamo non bastava più. A partire dal 22 marzo i numeri dei contagiati forniti dai bollettini quotidiani dalla Protezione Civile risultarono inferiori a quelli dei giorni precedenti, ma era presto per dire se veramente la
curva si stava appiattendo, se ci si stava avvicinando al picco, anche perché il numero dei contagiati, a detta degli esperti, era molto più alto di quello ufficiale per la presenza di asintomatici e per la scarsità dei tamponi eseguiti. Il ritorno alla normalità era ancora lontano.
“I mesi passati, accrescendo il desiderio di liberazione, avevano insegnato la prudenza e insieme li avevano abituati a contare sempre meno in una fine prossima del contagio […] Tutti erano d’accordo nel pensare che le comodità della vita trascorsa non si sarebbero ritrovate
di colpo“ (*)
(*) Albert Camus, La peste, 1947
Virgilio Dionisi ha 67 anni e vive a Fano (PU). Ha insegnato Matematica e Scienze nella scuola secondaria di primo grado. I suoi principali interessi sono lo studio della natura, la scrittura e la fotografia. Dal 2012 collabora con la rivista online Filobus66.