Marco Luchetta aveva 42 anni quando morì a Mostar assieme ad Alessandro Ota, operatore, e Dario D’Angelo, tecnico di ripresa. Era il 28 gennaio del 1994.
I tre colleghi della Rai erano nel cuore del teatro bellico bosniaco. Stavano lavorando per tutti noi, per farci vedere e sapere, in presa diretta, cosa stava succedendo a Est. Ricordo bene quella giornata e l’annuncio della morte di Marco, che conoscevo bene, entrambi triestini, entrambi giornalisti.
Il suo sacrificio, parte integrante e tragica del rischio di mestiere per un inviato di guerra, mi viene in mente oggi. Il 3 maggio è la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, voluta nel 1993 dall’assemblea delle Nazioni Unite e dalla Conferenza Generale dell’Unesco. È un omaggio non retorico, doveroso, un memento alla società intera che spesso sembra non mettere sufficientemente a fuoco l’importanza “di un’informazione non asservita al potere”.
Libertà di parola eguale democrazia
Marco, e tanti altri come lui, prima e dopo di lui, sono morti per questo: per aiutarci a decifrare la realtà, per contribuire alla costruzione di un’opinione, di un pensiero, con dati e immagini presi sul campo. Da allora il lavoro del giornalista, anche di chi si occupa di società e territorio, di economia e mafie, è diventato nel mondo sempre più difficile, a rischio.
Il 3 maggio serve anche a ricordare ai governi il dovere di sostenere e far rispettare la libertà di parola sancita dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani.
Libertà di parola eguale democrazia. L’equazione è persino banale, ma il diritto va sorvegliato, insidiato com’è dai regimi autoritari nel mondo e anche dentro l’Europa delle democrature, che mal tollera chi pubblica verità scomode. L’Ungheria di Orban è un esempio di quanto la tentazione di normalizzare la parola sia forte. Da anni i media ungheresi indipendenti sono ricattati finanziariamente e privati delle fonti di informazione.
La verità che si vuole arrivi è quella del governo di Budapest. E siamo in Europa, il continente più incline a mantenere viva la democrazia delle opinioni. Quello che succede in territorio asiatico, sotto l’egida delle dittature africane, persino nell’America a senso unico di Trump, che disprezza i giornalisti, è a conoscenza di tutti.
La pandemia ha evidenziato con forza i diversi approcci, ha fatto esplodere in maniera definitiva il tema delle fake news di cui siamo inondati. Forse, speriamo, così come ha riportato la centralità della scienza contro i sacerdoti novax, regalerà una nuova consapevolezza anche in materia di informazione.
Non è un momento buono nemmeno per l’Italia dove le concentrazioni editoriali hanno tolto ossigeno alla stampa indipendente e territoriale e la crisi economica produce restringimenti notevoli nella capacità di esserci laddove un testimone è richiesto. Meno inchieste, meno reportages, meno fotografie d’autore fuori dal filtro degli acquisti online, meno edicole, più precariato nelle redazioni.
Tutto questo incide fatalmente sulla qualità del prodotto finale. E nessuno deve pensare che sia un problema di categoria. Lo ripetiamo: è un problema di tutti, un problema di qualità della nostra democrazia. E nessun livello di democrazia è acquisito per sempre.
Libertà di stampa: Italia al 41esimo posto nel mondo
Nella sua classifica annuale sulla libertà di stampa, Reporters sans frontieres, mette l’Italia al 41esimo posto, promuovendola di due posizioni rispetto al 2019. Ci precedono, secondo questa analisi, (che personalmente trovo drammatizzata), il Ghana, il Sudafrica, il Burkina Faso e il Botswana. L’Italia, ci ricordano gli autori della classifica, ha oltre venti giornalisti sotto scorta, perché minacciati, con problemi delicati da Roma in giù. Oltre 2800 giornalisti italiani hanno ricevuto minacce di morte. Vero.
Le condizioni operative dei giornalisti, in Italia, ma anche in altre nazioni del mondo, sono peggiorate. Anche le democrazie fanno fatica a tollerare il quarto potere, il controcanto, il non asservimento. Conferenze stampa rituali senza vera interlocuzione, dirette Facebook che mettono al riparo da domande scomode, spazi interdetti o recintati.
Non è un mestiere facile, se fatto bene, ma è maledettamente importante. Dobbiamo difenderlo perché così facendo difendiamo la qualità del nostro vivere civile. Buon 3 maggio a tutti.