di Ottavia Marchiori
La luce lattiginosa del mattino di metà ottobre bagna ogni angolo della cucina promettendo, al di là dei vetri umidi di condensa, una giornata banale, uguale alla precedente e non dissimile da quella successiva. Seduti al tavolo in formica verde, io e mio fratello facciamo colazione, gli occhi fissi sulla tv a colori nuova di zecca, anelato acquisto costato a papà molti straordinari. Sullo schermo a tubo catodico passano le immagini di un cartone animato giapponese. Luca, un anno più grande di me, immerge a cadenza regolare la brioche nel caffelatte, suggendone poi la pasta grondante con un esasperante risucchio. È una delle sue ennesime provocazioni: sa che la cosa mi causa un immenso fastidio e, nonostante i calci che gli assesto sotto al tavolo, non desiste, trovando un certo compiacimento nell’infliggermi questa tortura. In quel momento, tutto mi innervosisce: l’eterna sfrontatezza di Luca, l’idea di dover affrontare la monotonia di un nuovo giorno di scuola, il pizzicore che le pesanti calze di lana a losanghe verdi che la mamma mi costringe a indossare mi provocano sui polpacci.
Finita la colazione, io e mio fratello ci apprestiamo ad alzarci da tavola ma Luca improvvisamente, con tutta la forza dei suoi nove anni, mi dà uno spintone. Nella mia parabola verso il pavimento, mi aggrappo alla tovaglia dai disegni natalizi che nostra madre si ostina ad utilizzare lungo tutto il corso dell’anno. Il fracasso rimbalza aspro sui muri della cucina intonacati da poco: sembra il rumore che fa la grandine quando,senza preavviso, si rovescia su una giornata di fine estate, violandone la quiete. A terra, sulle mattonelle in graniglia,l’intero servizio per la colazione si estende come una curiosa costellazione di cocci in piena espansione. La brocca del latte, i piatti, le tazze in terracotta “fatti alla vecchia maniera”, come recita la pubblicità: tutto irrimediabilmente in frantumi. Luca ride di una risata cattiva. “Perché non mi lasci mai stare? Perché?” gli grido. E poi: “Ti odio! Ti odio! Vorrei che fossi morto!”. Nostra madre,le braccia abbandonate lungo i fianchi,ha lo sguardo perso per terra. Non si cura della schiuma del detersivo al limone che le gocciola dai guanti gialli disegnando aloni scuri sulle sue ciabatte grigie.Poi con una lentezza esasperante, inusuale in lei, donna dai modi spicci e dalle reazioni spesso poco misurate, alza gli occhi: su di me, poi su di Luca. Non dice una parola.Sembra una statua di sale. Sul suo volto, dietro ai lineamenti irrigiditi dalla rabbia,traspare un’inconsolabile delusione.
“Tutto quello che devi fare per avere subito il Coccio è raccogliere trenta spighe”. Ricordo mia madre seduta la sera dopo cena al tavolo della cucina sotto la plafoniera opaca dentro cui andavano a morire a decine i moscerini sedotti dalla lampadina. Ricordo il rumore delle sue forbici sulla carta delle confezioni di biscotti, lei intenta a ritagliare i punti con cura,l’estremità della lingua dimenticata tra le labbra per la concentrazione. A quei tempi le promozioni erano la sua passione. Aveva coinvolto tutte le mamme dei nostri compagni di scuola in un collaudatissimo sistema di baratto: i punti dello yogurt per quelli del detersivo, quelli della pasta in cambio di quelli delle mozzarelle…L’agognato servizio le era costato mesi di febbrili transazioni. Quel mattino d’ottobre mentre io, lei e Lucane raccoglievamo da terra i frammenti in un silenzio carico di malumore, non potevamo sapere che di lì a poco tutto sarebbe cambiato. Per sempre.
Un cielo plumbeo minaccia pioggia, in questo pomeriggio buio di marzo. La polvere e la confusione regnano ingovernabili tra gli scaffali del negozio dell’usato vicino alla stazione, in cui perdo tempo attendendo l’ora di partenza del mio treno. Per oggi con l’università ho finito e mi aspettano i soliti quaranta minuti di viaggio per rientrare a casa. In una babilonia di elettrodomestici semi-funzionanti e cesti di vecchie Vhs che nessuno vuole, campeggia un vecchio cartello ormai poco leggibile con il quale il proprietario del negozio intima ai clienti di rispettare l’ordine del locale e ad aver cura di riporre gli oggetti, una volta esaminati, esattamente là dove li si è trovati. Nel frattempo fuori le nuvole scure hanno mantenuto la loro promessa: dalla porta lasciata aperta entra l’odore di pioggia che sale dal marciapiede. Tiro fuori il cellulare dalla tasca destra della mia giacca di velluto grigio per controllare l’ora: meglio che mi sbrighi. Vado verso l’uscita, accennando un saluto all’uomo dietro alla cassa che mi osserva sospettoso e il mio sguardo cade sulla vetrinetta dietro di lui.
È un attimo: tutto mi ritorna in mente. La luce di quel mattino, il fragore dei cocci, l’ultimo litigio con Luca, le ultime parole che gli ho detto…Il senso di colpa è come un animale selvatico che vive dentro di me, rannicchiato tra le costole della gabbia toracica. È sempre lì. Ci ho messo anni a tentare di domarlo ma non posso cacciarlo via né ucciderlo: posso solo conviverci.Devo stare costantemente all’erta, devo muovermi piano per non disturbarlo. Altrimenti diventa pericoloso. E può sbranarmi. Come sta facendo adesso. “Signorina, si sente bene? Posso aiutarla?“. “Sì, sì… mi scusi” balbetto. Le parole mi si impigliano tra i denti. “Quanto costano?“. Allungo il braccio indicando un punto dietro la sua spalla destra. Lui annuisce e si gira mentre io cerco di darmi un po’ di contegno asciugandomi il mascara sciolto dalle lacrime.
Sento uno sguardo pungermi la pelle: l’uomo seduto sul sedile di fronte al mio, stretto nel suo inappuntabile impermeabile verde, mi soppesa con aria interrogativa. Fissa i miei capelli,completamente bagnati: detesto gli ombrelli, non ne ho mai avuto uno. Lascio che lo sconosciuto continui a giudicare il mio aspetto: mi è indifferente. La mia attenzione è tutta per il sacchetto di plastica azzurro in cui l’uomo del negozio dell’usato ha riposto il mio acquisto. Lo stringo in mano, poggiato sulle ginocchia per custodirlo dai sobbalzi del treno.
“Ciao papà, ciao mamma“. “Ciao Frà. Com’è andata oggi?“. “Bene, bene. Grazie“. “Tra poco si cena. Ho fatto le lasagne“. “Vado a cambiarmi un attimo di sopra e arrivo“. Le solite parole di convenienza, le solite frasi dette senza convinzione, battute scontate di un’eterna recita. Un gioco di ruoli in una famiglia che sta insieme a fatica, come i pezzi di un antico vaso incollati malamente l’uno all’altro. Ruoli fragili. Sono cresciuta stando ben attenta a non fare rumore, a camminare sul filo del rasoio senza cadere, a non dare problemi ai miei.Specie a mia madre. Mi sono laureata nei tempi previsti e ho trovato subito lavoro come ricercatrice nella stessa università.
Da piccola a scuola non sono mai stata bocciata e non ho mai saltato una lezione di clarinetto anche se lo detestavo con tutta me stessa. Suonarlo mi dava la nausea ma vedevo la soddisfazione sul volto dei miei genitori mentre mi esibivo ai saggi o durante qualche pranzo di Natale con i parenti… Ho sempre fatto in modo che fossero contenti di me e che non avessero dispiaceri a causa mia.
Salgo le scale. Esito un attimo davanti alla porta della camera che un tempo è stata di mio fratello. Poi la apro. Tutto è come allora. Sul suo letto ci sono ancora gli stessi pupazzi, la stessa trapunta, alle pareti gli stessi poster con i robottoni. Mia madre ha sempre preteso che nulla venisse tolto o spostato. Tiro fuori l’involucro dal sacchetto, strappo le vecchie pagine di giornale in cui sono avvolti una tazza giallo paglierino con un mulino stilizzato e un piatto dello stesso colore su cui è immortalato un volo di rondini. Non so neanche che senso abbia averli presi ma ormai ogni cosa ha perso senso, da tanto tempo. Li appoggio sulla piccola scrivania laccata di bianco, vicino alla foto, inquadrata in una spessa cornice d’argento, in cui mio fratello mostra contento la macchinina telecomandata ricevuta per il suo nono compleanno. Luca avrà nove anni per sempre.
Ottavia Marchiori è nata a Broni in provincia di Pavia. Vive a Parma dove si è laureata in lingue e letterature straniere. È stata ideatrice e curatrice di un blog letterario dedicato all’opera dello scrittore francese Jean-Claude Izzo. Alcuni suoi haiku sono stati pubblicati nella raccolta “Haiku tra meridiani e paralleli – V stagione”, edita da “Fusibilia Libri”. Fa parte degli autori delle raccolte di racconti “Una giornata di Hemingway in val Trebbia” edita dalle “Officine Gutenberg” di Piacenza e “Cinquantatré vedute del Giappone” pubblicata da “Idrovolante Edizioni”.