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di Giuliana Lamburghini

 

L’estate sembrava non finire e per la prima volta avrei trascorso senza i miei qualche giorno in campagna, nella cascina di una cugina di mia madre. La mattina presto, dopo colazione, mio padre mi ci aveva accompagnato portandomi sulla canna della sua bicicletta.
Non mi lamentai e non chiesi spiegazioni che intuivo difficili; già d’abitudine e volentieri sapevo farmi compagnia da sola. In paese fino ad allora i miei confini erano segnati dalle modeste abitazioni del vicinato, con alcuni
usci e altrettante famiglie intorno al selciato di una corte lunga e stretta, le rive del canale poco lontano e la strada polverosa che portava alla piazza della chiesa, con la cartolina del campanile bianco e le campane che scandivano le ore di tutti, tutti i giorni dell’anno.

La grande casa era fresca, in penombra, odorosa di salame un poco irrancidito che si intuiva sotto un tovagliolo candido sulla dispensa e di pane dalla madia appena aperta, da cui la Gina aveva tratto una coppia liscia e chiara, che stava spezzando per me. Il suo sguardo franco e il sorriso illuminato dalle gote rosse, mi impedirono di rifiutare l’offerta che cominciai ad assaggiare lentamente rosicchiando appena la crosta sottile, che inaspettatamente mi riempì la bocca di saliva, come se avessi una gran fame.
Era un sapore diverso dal nostro pane, come tutte le cose che vedevo intorno, adesso che gli occhi si erano abituati alla fresca oscurità dell’andito. Nelle case di campagna le stanze al piano di sopra dall’impiantito di mattoni cotti lucidati con la cera marrone, si assomigliavano tutte nelle basse finestre piccole e profonde, le brevi tende di pizzo bianco e gli alti letti in ferro nero con i lucidi pomelli d’ottone. Nel cassettone incoronato da una semplice specchiera, riposi i pochi panni del mio breve soggiorno prima di scendere le scale strette e ripide e uscire, per scoprire finalmente dov’ero.

Il silenzio profondo mi circondava; poco distante però, la stalla era animata perché le mucche muovendosi a tratti facevano tintinnare i loro campanacci o, chiamandosi, muggivano quiete.
Provavo simpatia e rispetto per quelle bestie grandi e gentili, tuttavia non potevo fare a meno di sentirmi un’intrusa. In fondo alla stalla c’era qualcuno che col forcone stava riempiendo di fieno una mangiatoia; quando mi avvicinai mi guardò per un istante senza parlare con occhi beffardi e ricominciò subito il lavoro. Ero di troppo e me ne andai subito, una ragazzetta di nove anni era un impiccio lì dentro e il Benito, come sua moglie, non poteva certo badare a me.
La luce abbagliava e il caldo, più greve, graffiava la pelle come la pesante coperta grigia che mio padre aveva portato con sé tornando dalla guerra alcuni anni prima; tutti i suoi racconti, di fame e di freddo, sembravano intessuti in quel rettangolo di ruvida stoffa sdrucita dalla trama fitta, ingombrante testimone di quei giorni lontani che tutti volevano dimenticare.

Il viottolo che portava nei campi era a pochi passi e io mi incamminai seguendo il suo percorso, fino ad una vasta distesa di granturco. Una vera foresta, ma ordinata meticolosamente in alte e immense file verdi coronate di pennacchi da cui spuntavano bagliori gialli, mossi lievemente da una timida brezza infuocata.
Erano grasse pannocchie per la polenta, il cibo di quasi tutta la gente delle nostre parti, l’unico fino a poco tempo prima, come ci aveva insegnato la maestra raccontandoci di quel dono benedetto venuto dal nuovo mondo e già raccontato tante volte da mia nonna, che di polenta ne aveva mangiata tanta.

Come in un labirinto o in un gioco di specchi, più mi addentravo, più si moltiplicavano i filari davanti ai miei occhi. Un’irreale frescura sembrava sospingermi, ancora e ancora, finché non fui convinta di essere l’unica persona al mondo e mi fermai. Era un regno bellissimo.
Mi sdraiai e per la prima volta, ebbi coscienza del colore del cielo. Profondo, liquido, perfetto blu che colava denso dai fusti sottili e altissimi che mi sovrastavano. Scendeva verso di me e mi pesava addosso per poi insinuarsi nelle crepe del terreno riarso, di un bel metallo lucente.
Gli occhi mi bruciavano e li chiusi.
Il rumore assordante delle cicale eccitava la girandola dei miei pensieri e d’improvviso, si fissarono nella mente le fascinose rappresentazioni che avevo visto nel grande libro dalla copertina di spesso cartone rosso, custodito gelosamente nella vetrina della nostra credenza.

Nessuno a casa osava sfogliare l’Enciclopedia, l’oracolo dal nome difficile che doveva essere conservato per aiutarci negli anni futuri; mio fratello e io avremmo studiato e dovevamo considerarlo come il bene più prezioso, frutto di inauditi sacrifici, di cui non dovevamo fare parola con alcuno.
Scorrendo le sue pagine di nascosto, più e più volte dall’immagine di un cielo dello stesso colore mi aveva colpito l’irresistibile apparizione dell’angelo con la grande spada e la piccola mano bianca levata, ferma, e immutabile. Il volto bellissimo e distante, sovrastava un uomo e una donna troppo veri che mi facevano paura coi loro visi deformi, che mi attraevano con la loro nudità sconvolgente tanto più viva contro il desolato paesaggio.
Un rombo intenso mi richiamò al presente, tuttavia non c’era alcuna nuvola in cielo, non era un temporale bensì uno strano e misterioso fenomeno estivo che pareva inspiegabile anche nei racconti dei grandi. Tutto era calmo, immoto, mentre le cicale avevano ripreso all’unisono ciò che sapevano fare tanto bene, raggiungendo il diapason dell’ora più calda. Avevo scoperto il colore.

Mi sembrava di possederne la materia e per la prima volta immaginavo anche quelli che non apparivano nelle numerose figure in bianco e nero del libro proibito. Figure seducenti di persone diverse da tutte quelle che conoscevo, con delicati abiti di velo sempre mossi da una brezza lieve, i cui volti e fattezze appartenevano ad un mondo segreto di favola, che solo io possedevo. Paesaggi rupestri, vallate circondate da alture mai immaginate, animali misteriosi nel paradiso terrestre, angeli e draghi, e santi, sempre con gli occhi rivolti al cielo.
Era lo stesso cielo che stavo guardando.
Quelle immagini segrete finalmente mi dicevano perché mi sentivo diversa. E se i compagni non giocavano con me, se non sentivo di appartenere al loro mondo, mi bastava correre a perdifiato e poi lasciarmi cadere e guardare il cielo, finché gli occhi spalancati non mi bruciavano e due lacrimoni salati scendendo lentamente, bagnandomi le labbra arse dal sole.
Mi piaceva allora scivolare sulle rive del canale e poi fermarmi a lambire l’acqua coi piedi nudi e osservare ogni piccolo insetto che si muoveva o volava intorno a me. Percepivo ogni più lieve fruscio provenire da quel mondo affollato e misterioso; osservarlo a lungo mi appagava e se rincorrevo una libellula trasparente dal volo astratto e nervoso, era certo che non sarei ritornata a casa per tempo.

Gli occhi della Gina non tradivano la minima ansia e non mi fu chiesta alcuna giustificazione quando entrai finalmente, nella grande cucina. Seduta accanto alla porta, osservavo le sue mani che preparavano la pasta. I gesti erano sempre gli stessi; la collina di farina bianca diventava un cratere che invece di emettere bagliori, fondeva al suo interno il giallo e il rosso dei tuorli e poi si trasformava in una materia elastica e compatta, dal suono vibratile e giocoso. Velocemente, sotto le pressioni uniformi di un lungo mattarello, la pasta spianata si assottigliava in sfoglia sempre più sottile, leggera e trasparente, dal colore dorato, come di un velo mosso da una brezza lieve.
Della metamorfosi che pareva un gioco di prestigio, io non coglievo solo i gesti, bensì la magia di ciò che avevano inspiegabilmente prodotto e ricordavo di altre volte in cui la stessa magia muoveva le ombre che col vapore dei fiati mescolati di gente e bestie, creava sagome ondeggianti verso l’alto, sui muri anneriti di una stalla intorno ai contastorie ambulanti. Ombre che si muovevano mute dando vita ai racconti. Erano viaggi fantastici di eroici cavalieri e fanciulle guerriere dai nomi bizzarri, in paesi lontani e caldi, dove l’amore trionfava sempre e i buoni non morivano mai.
Felicità e tormenti prendevano corpo in quella penombra, mentre le donne con le mani in perenne movimento, intrecciavano infinite matasse di paglia insieme ai bambini più grandi. Di tanto in tanto si asciugavano furtivamente gli occhi, vergognose dei propri sentimenti o dei propri rimpianti e a tratti bisbigliavano fra loro poche parole, attente agli sguardi d’ intorno.

Il pranzo con le tagliatelle in brodo era d’uso comune nelle famiglie dei contadini che avevano la terra e l’orto e le galline. Un pranzo consumato in silenzio, il marito a capotavola, la moglie di lato a servirlo docile, con l’ombra di un vago sorriso sulle labbra e gli occhi quieti rivolti in basso. La Gina non aveva figli ma si capiva che nonostante fossero già passati alcuni anni dal giorno del matrimonio, non aveva perso la speranza. Il suo uomo non sembrava badarle, i suoi pensieri erano sfuggenti, gli occhi inquieti, colorati di bagliori inquietanti, come le nuvole di una tempesta d’agosto. E la loro casa ora, mi sembrava troppo grande per una donna sola.
Nella mia camera affacciata sull’aia, riposavo nelle prime ore del pomeriggio mentre tutto era fermo, immoto. Perfino gli uccelli e soprattutto le rondini, sempre così indaffarate e instancabili nei loro voli gridati e fulminei, soccombevano sotto il peso del calore intenso, cessando ogni loro attività.

Anche gli sposi riposavano poco distante e potevo sentire il ritmo del loro respiro attraverso il mio uscio, che era solo accostato. Mi addormentai osservando il soffitto, le travi e il filo della lampadina col cappello a ventaglio di latta bianca, profilato di azzurro, che pendeva brevemente nel mezzo.
Alcuni rumori secchi, come di una sedia caduta, mi risvegliarono d’improvviso e mi parve di udire un singhiozzo soffocato provenire dalla scala. La porta di casa sbattuta mi destò completamente, ma rimasi immobile sul letto e aspettai prima di scendere in cucina. La Gina era seduta accanto alla finestra. Il suo viso non appariva turbato mentre le mani, intente al cucito, tremavano impercettibilmente quando l’ago si alzava in un gesto regolare, sempre uguale a se stesso, interrotto solo nel momento in cui alzò gli occhi sereni verso di me. Accettava tutto della sua vita. Era parte di un disegno più grande di lei, che non si ribellava, che traeva tutta la sua forza da una fede ostinatamente umile, profonda, senza domande, risposte, debolezze.
I suoi sentimenti mi investivano come un’ondata calda che mi travolgeva, ma non mi faceva cadere.

Aveva preparato una merenda per me, un pezzo di torta sbrisolona e un bicchiere di latte.
Sapevo bene che solo nelle occasioni più importanti si offriva questo dolce riposto accuratamente in una scatola di latta colorata, con la carta velina e il coperchio ermetico, a mantenerne intatta a lungo tutta la sua compattezza e fragranza inconfondibili. Non mi piacevano i dolci, ma la sbrisolona si, perché era un gioco che potevano fare anche i bambini con le loro stesse mani. La mamma, che non amava intrusi nella sua cucina, aveva acconsentito che io stessa imparassi a fare la mia sbrisolona durante una convalescenza troppo lunga, nell’inverno troppo freddo dell’anno precedente. L’ingrediente che più mi piaceva, erano le mandorle.
Comparivano soltanto in quella circostanza e, dopo averle tuffate nell’acqua bollente, bisognava spogliarle della camicia marrone e ruvida che le ricopriva, mentre le punte delle dita si raggrinzivano come per un bagno di mare troppo prolungato, che avrei scoperto solo qualche anno dopo.

Si tostavano nel forno finché l’ aristocratico avorio lucido assumeva un colore dorato e il loro aroma intenso non invadeva tutta la casa, dando inizio alla festa. L’umile, sapida farina gialla dei contadini insieme alla bianca più pregiata, e poi il burro, i tuorli, nel gioco del due: due di tutto e, infine, un pizzico di vanillina trasportata dalle ali degli inconfondibili angioletti, disegnati su coppie di leggere bustine, profumate di azzurro.
Adesso il divertimento si faceva difficile, perché ultimarla era un’arte segreta, che ogni madre insegnava pazientemente alla propria figlia. Granuloso e compatto come il sabbione del fiume con cui giocavo da piccola quando trascorrevo con i miei rare, indimenticabili domeniche estive sul Mincio, nell’impasto l’aria doveva scorrervi libera finché non si faceva cadere a pioggia nella tortiera d’alluminio, che soltanto a mia madre era
consentito infornare.

Inaspettatamente, nel tardo pomeriggio, arrivarono i miei genitori.
L’espressione dei loro volti era diversa, c’era la luce delle novità a mutarne l’aspetto e dalle parole che scambiarono con la Gina, appresi che molto presto avremmo lasciato la nostra casa in paese per trasferirci in città, vicino ai nonni materni che già vi abitavano da alcuni anni. Il mio cuore era sospeso tra l’ansia della novità, che sentivo piena di attese negli atteggiamenti dei miei e la nostalgia intensa di ciò che avrei dovuto lasciare per sempre. Vedevo gli occhi celesti di mia madre, profondi e inquieti, trattenere uno smarrimento ostinato, molesto, che solo in quelli scuri e determinati di mio padre trovavano una tregua e una ancor più ostinata speranza.
Ormai le ombre si allungavano e la luce aveva assunto il colore dei tramonti estivi che danno la sicurezza di un’ altra bellissima, interminabile, giornata. Mi allontanai senza essere vista per avere la certezza di portarmi via ogni momento di quel breve soggiorno, colorato di scoperte e sentimenti più grandi di me.

Seduta sotto il tiglio accanto alla casa, mi persi ad osservare le formiche più piccole che tutte insieme procedevano intente tranne una, la più temeraria, quella che sembra non aver paura di nulla e vaga sempre più lontana, senza voltarsi indietro.


Giuliana Lamburghini abita a Roma. Ha studiato scenografia, insegnato per vent’anni e, dice, “mi sono inventata il modo di vendere il mio dolce del cuore, quando sono rimasta senza lavoro”.
Sposata dal 1972, ha due figli. Il primo vive a  Melbourne da 8 anni, la seconda è a Roma e “ci ha regalato un meraviglioso nipote -racconta Giuliana- che ha compiuto nove mesi in questi giorni tanto difficili”. 
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