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di Luigino Bravin

 

Ogni stagione colora il mio mondo di tinte diverse.
L’erba dei prati quando si nutre di acqua in primavera diventa verde; un verde che al tramonto si illumina di velluto basta un poco di vento. In autunno le foglie cadute dagli alberi la usano come un lieve materasso. L’inverno la vede gialla, screziata di marrone e rosso, forse morta come il vello di uno stuoino.
In ogni stagione i frequentatori dei prati e delle siepi cambiano, usano quello che serve per la loro sussistenza o magari per costruire una dimora provvisoria, fare all’amore, allevare i piccoli per poi andarsene in altre contrade o climi. Se gli uccelli cambiano con le stagioni anche la ripetitività dei comportamenti nelle persone può variare, alle volte entrano nella consuetudine del nostro mondo persone mai viste.

La scuola era iniziata da pochi giorni quando sono arrivati nel giardino sotto casa due migratori mai visti prima. Ho intuito subito che fossero due liceali in cerca di un nido. Nella panchina vicina ad un cespuglio di sempreverdi, di quelli che in inverno maturano delle piccole bacche rosse, tentavano di trovare un poco di intimità fra le 7.40 e le 8 meno 10.
Se il cespuglio li nascondeva dalla strada, altrettanto non si può dire dal mio terrazzo della cucina. Il mattino a quell’ora c’è sempre da fare e le uscite, vuoi per l’umido da deporre o la carta da mettere nel bidone, sono frequenti e improvvise. Una mattina, dopo pochi giorni dalla loro comparsa la ragazza che stava accoccolata sulle ginocchia del suo lui alza lo sguardo e mi vede. Con una facilità che non immaginavo alza una mano e mi saluta. Anche lui si gira, mi guarda e compie lo stesso gesto di saluto.
Buon giorno a voi ragazzi” – rispondo a voce – “buona giornata”.
Non ho interesse a spiarli dal balcone. Pochi minuti dopo sono spariti presumibilmente diretti verso il liceo.

Li hai spaventati” – mi dico – “potevi evitare di rispondere al loro saluto“.
Avevo un poco di rimorso, cosa mai provata quando andavo da ragazzino a molestare i nidi, ora mi sembrava di averlo disturbato il loro nido. Il mattino dopo erano di nuovo sulla panchina. Mi fece piacere ma evitai di uscire in terrazza. Alcune mattine dopo la ragazza rivolse lo sguardo verso di me che stavo mettendo ordine nella scarpiera e mi salutò con un sorriso aperto e amichevole.
Buongiorno ragazzi. Tutto bene?
E lei?
Si grazie. Ci vediamo”.
Di sicuro, sempre che non piova”.
Due giorni dopo iniziò veramente a piovere e scomparvero.
Non sono come i merli”– mi dicevo – “a loro bastano le foglie di un cespuglio”.
Mi dispiaceva che non potessero stare vicini, innamorati, perché questo erano e lo capivo bene perché lunga era la mia vita e vissuta.

L’autunno da un pochi di anni è cambiato da noi, e anche l’inverno. Piove poco e le mattine sono raramente rigide. Per decine e decine di mattine il nostro saluto, un semplice buongiorno non è mai mancato. Nei giorni vicini al solstizio quella luce che precede l’aurora non riusciva ad illuminare quel fagotto di cappotti e sciarpe che nascondeva i loro, immagino, baci intrisi di sentimento e gioventù.
Poi ci furono le vacanze di Natale ma l’ultimo giorno di scuola guardarono entrambi la mia terrazza, quasi mi aspettassero.
Buon Natale”.
Anche a voi. Tante cose”.
Non è piovuto il mese di gennaio e i due migratori tornarono dopo le vacanze alla loro panchina.

Quando uscivo sul poggiolo e rientravo veloce senza salutarli perché faceva freddo, mi immaginavo la mia gioventù quando il freddo non sapevamo cos’era e i baci e le effusioni quando si arrivava con il buio in stazione c’erano ma solo se non c’era gente in giro. Ai miei tempi eravamo sempre controllati e a salvarci, non sempre, solo la furbizia, l’intuizione e la velocità nel nasconderci o separarsi. Ora loro avevano solo il freddo da combattere ma immagino che non lo sentissero più di tanto.
Quando la loro panchina era bagnata lui arrivava con qualche depliant, lo adagiava sul sedile e quando sparivano verso il liceo lo metteva regolarmente nel cestino.
Bravi ed educati” – mi dicevo – “fossero tutti così”.

Ad inizio di febbraio non piovve quasi mai. Mi salutavano con la mano.
Poi vennero i giorni della tempesta. Quello che sembrava un accidente che colpiva solo i cinesi si affacciò lentamente sul nostro mondo. Dietro un velo di scetticismo, all’inizio, non modificammo i nostri ritmi. Poi chiusero le scuole e finimmo tutti a parlarci tanto, i primi giorni, poi a non parlare più perché non avevamo più niente da dirci e bisognava stare distanti.
Il mattino guardavo giù nel giardino. La panchina desolatamente vuota una mattina dietro l’altra.
Quando in primavera percorro via XX settembre provo piacere, è sempre stato così, nel vedere i nidi delle rondini sotto i portici. “Sono tornate”, mi dico sempre con la consapevolezza che la vita non possa morire mai. Se ci sono uccelli che fanno diecimila chilometri per amarsi e figliare sulle travature dei portici di Conegliano allora nulla potrà distruggere il nostro mondo al di là delle avversità.
Questo pensavo in questi giorni di melanconia e tristezza per la nostra breve clausura.

Torneranno i miei giovani migratori?” Li sto aspettando con apprensione.
Il loro amore sopravvivrà alla lontananza imposta? Chissà. Lo spero con tutta la partecipazione possibile anche se non conosco i loro nomi e in una folla di ragazzi non li saprei riconoscere”.
Quel giorno che vedrò sulla panchina, ormai è primavera, non più un fagotto di giacconi ma delle felpe leggere vorrà dire che è tutto finito. Passata la paura scenderò in giardino, mi farò dire il loro nome e li abbraccerò entrambi.
Se non compariranno più forse sarà perché il loro amore si è arreso alla lontananza e al corona virus.
Magari il prossimo autunno compariranno altri due migratori a dare vita a quella panchina che nelle estati di tanti anni fa era allietata da anziani che si raccontavano storie di una volta e scherzavano con mio figlio più piccolo che ora ha trent’anni.
Ora la panchina è desolatamente vuota, come Conegliano in questi giorni di attesa e di apprensione.
Sono convinto che i migratori torneranno. Vorrà dire che è tutto finito. Alleluia.


Luigino Bravin è nato nel 1952 e vive a Conegliano. Si è laureato a Padova nel 1976.
Ha insegnato matematica fino al 2015. Ha all’attivo sei libri pubblicati da Piazza Editore di Treviso.
“Attualmente” -ci racconta- “faccio il nonno e tengo lezioni, naturalmente gratis, di geologia e storia (la mia passione) in diverse università degli adulti di Conegliano e dintorni”.

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