Storie | Fano – Passaggi Festival https://2020.passaggifestival.it/ Passaggi Festival. Libri vista mare Wed, 09 Sep 2020 14:18:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.5.1 https://2020.passaggifestival.it/wp-content/uploads/2020/03/cropped-nuovo-logo-passaggi-festival_rosso-300x300-1-32x32.jpg Storie | Fano – Passaggi Festival https://2020.passaggifestival.it/ 32 32 La cosa preziosa https://2020.passaggifestival.it/silvia-spera-cosa-preziosa/ Tue, 08 Sep 2020 15:22:12 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75550 La poesia che brilla, incurante come un'estate, proprio là dove sarebbe facile pensare che non c'è. La storia di Silvia Spera

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di Silvia Spera 

 

E’ arrivato il momento, sente pronunciare il suo nome, le mani di un ragazzo sorridente con gli auricolari
scostano il tendone per lui, forse ha percepito le vibrazioni del suo tremare, ma invece le gambe a condurlo
fin sul palco devono per forza essere le sue, senza aiuti di arti altrui.
E’ stata una sorpresa ricevere quella telefonata da una giuria che lo invitava al ritiro del premio, una piccola
cerimonia non si preoccupi, e un breve servizio nella sezione cultura del TG3, aveva detto la voce al di là
della cornetta, riagganciando.
Una di quelle emozioni che ti toglie il fiato, gli era successo solo quando gli avevano immesso litri di acqua
in gola con l’imbuto, senza lasciargli tregua.

I volontari dell’organizzazione umanitaria locale che gli offre un letto e un piatto caldo lo hanno iscritto,
mesi fa, al concorso letterario di poesia, a sua insaputa. Marta pulendo, come ogni sabato, aveva trovato un foglio stropicciato in terra, sotto l’ultima branda, e senza saperne il motivo, invece di gettarlo via, insieme ai rifiuti già accumulati dagli altri stanzoni della zone notte, si era soffermata a leggerlo. E subito era corsa da Alessandro, il capo del 95, come lo chiamavano, per istinto, così, sentendo di avere tra le mani una cosa preziosa. L’autore della cosa preziosa viveva al Binario 95 della stazione Termini da cinque anni ormai, in mezzo
all’incurante splendore romano, si sentiva amato e i ragazzi dell’associazione che lo ospitava non solo lo
avevano accolto, rimesso in forma e inserito in un colorato gruppo di umanità varia e stimolante, ma gli
avevano trasmesso un po’ del calore e della fiducia in se stesso, che aveva lasciato, e credeva perduti per
sempre, a Lomé, tra le carezze materne.

Quella fiducia in sé stessi che una mamma a cui è concesso il tempo per osservare il suo ragazzo crescere
può costruire giorno dopo giorno, con i piccoli gesti densi, con le brevi frasi appena sussurrate, con uno
sguardo dolcemente compiaciuto, mattone dopo mattone.
Già, mattone dopo mattone… il pensiero torna a quando, dopo mesi vissuti nel deserto, ha vissuto in tre
mattonelle. Questo era lo spazio concesso ad ogni prigioniero, con un compagno con cui fare i turni, uno in
piedi su mezza mattonella mentre l’altro, su cinque e un pezzetto, provava a dormire. Con i corpi intrecciati
come gemelli nell’utero di una sola madre. All’inizio nessuno lo toccava e lui, inguaribile romantico, pensava che nessuno osava toccare quel fiore bello bizzarro che aveva trovato posto sul marciapiede sbiadito.

E poi le parole sono arrivate, come un flusso che non riesci ad interrompere, come quelle gocce che cadono
dalla busta della tua spazzatura e non sai come rimediare a quel disastro ormai avviato nella tromba delle
scale del palazzo, come la polvere che le stelle seminano tra le galassie nonostante il vano tentativo del sole
di respingerla. La terra umida e odorosa tra la mani, l’alba nei campi così ordinati come solo la natura sa fare, le lacrime dei compagni, la fatica, i colori quasi immaginifici, le piccole cose che hanno grandezza dentro di loro e che ti si avvvicinano e ti sussurrano come fossero angeli o fantasmi, lo hanno reso un poeta.
I frutti seducenti dell’estate, l’esplosione di luce sui filari, le canzoni silenziose lo hanno costretto a
raccattare penne e carta dappertutto, come se fossero un terzo braccio, la sua terza mano, la sua seconda
testa e il suo secondo cuore. Quegli sguardi chini e stanchi, sempre sull’orlo del riso e del pianto. Non sono solo braccia muscolose regolate da ritmi stagionali. Tutti diversi ma parte l’uno dell’altro, chi oltrepassa le frontiere, chi sostiene chi è appena arrivato, chi produce semi e li distribuisce gratuitamente, ognuno con la sua lucida pazzia, chi si traveste da albero per sentire la terra, chi nasconde arcobaleni perché non vengano venduti, chi pittura le sirene di altri colori perché si mimetizzino e non siano esposte ai pericoli.

Quando prova a volare via con la mente per costringersi a non scrivere, con la schiena appoggiata al tronco
del suo albero, niente da fare, ci si mettono anche i ricordi, i ricordi che non lo lasciano in pace un attimo.
La moglie in attesa non solo del suo ritorno, l’universo non accetta la nostra separazione. Altera il suo
equilibrio, dicevano, ma erano stati costretti a separarsi. E le luci di Lomé, quella spiaggia in fondo alla strada, che la stringe in un abbraccio e quelle sue tombe scavate nella sabbia.
Lomé, come tante altre città, non fa sentire la sua voce se non ci si è adagiati sul suo cuore singhiozzando
almeno una volta, o se non ci si è addormentati tra le sue braccia.

Eccolo quindi sul palco, camicia di Alessandro e sopracciglia da modello, che Marta ha insistito per sistemargli, prende tra le sue mani grandi la minuscola scultura. L’uomo con il microfono, sorriso smagliante, camicia tesa sul ventre, pochi ciuffi grigi intorno alla pelata, le fede che strangola l’anulare in cui è stata infilata anni fa, gli chiede di recitare la sua cosa preziosa, e lui, fiero come un leone, voce ferma che invade l’auditorium, labbra carnose che divorano la parole:

Mi spezzo la schiena per soddisfare la tua fame, europeo
Mi sveglio, invisibile, prima dell’alba e il mio sudore vale mezzo euro a cassetta
Assaggiatore di prelibatezze dall’orto delle isole biologiche,
che vai al mercato con la tua shopper alla moda
Il mio stato liquido, senza forma, saranno baratro e voragine in cui precipiterà la tua coscienza

 


 

Silvia Spera è nata a Colleferro in provincia di Roma.
Vive a Roma da tanti anni. E’ IT Architect e matematica, appassionata di lettura, mare  e cinema.

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Una tela completamente bianca https://2020.passaggifestival.it/francesca-giorlando-tela-bianca/ Mon, 07 Sep 2020 13:34:34 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75468 Lo spazio bianco del silenzio o l'idea mai pensata? Cos'è davvero un'opera d'arte se non un lampo che illumina il tutto e il suo contrario? La storia di Francesca Giorlando

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di Francesca Giorlando

 

“E il tuo tema come s’intitola?”, chiese la professoressa al termine dell’ora di italiano.
“Storia di un artista moderno”, rispose Elena. “Parla di un uomo che un giorno crea una nuova opera: una tela completamente bianca. Ci pensa e ci ripensa, ma alla fine decide di lasciarla così. La porta ad un esperto e gli viene detto che è un’opera di inestimabile valore. Viene esposta al Louvre, agli Uffizi, fa il giro del mondo: va a Boston, Chicago, Caracas, poi Londra, Belfast, Monaco di Baviera, Tokyo e tante altre città. L’autore diventa famoso, e alle diverse critiche che gli vengono poste lui risponde che non è tanto la tela ad assumere valore, quanto il silenzio che vi si aggrappa”.

“Bel tema”, fece la professoressa. “Non è finito qua”, la interruppe l’allieva. “Un giorno, un compositore va a vedere esposto questo quadro totalmente bianco e decide di seguire l’onda del suo successo: quella sera torna a casa e lascia un foglio pentagrammato totalmente vuoto. Il giorno dopo lo mostra alla sua orchestra che decide, fra i tanti pezzi, di suonare anche quello. Il pubblico dapprima è perplesso, poi si alza in un fragoroso ed inspiegabile applauso”.
La professoressa guardò Elena incuriosita.
“Anche uno scrittore, dopo aver sentito quel concerto, va dal suo editore e pubblica un libro completamente bianco. Pagine e pagine senza scritte, nessuna parola, mancavano persino le numerazioni ai bordi. Inaspettatamente, anche questa opera viene definita dai critici un capolavoro e in milioni accorrono a comprarne una copia. Alcuni però non capiscono il messaggio dello scrittore, e cercano disperatamente di riempire quelle pagine bianche con una sua firma. Dopo quel libro, nasce un nuovo movimento, lo chiamano il silenzio. Tutti ne vanno matti, cercano di imitarlo, di esaltarlo, trovano in esso il genio umano più espresso di quanto non lo sia mai stato”.

Attorno alla ragazza si avvicinarono curiosi alcuni studenti.
“Qualcuno, diciamo i più grezzi, trovano assurdo tutto ciò. Dicono che l’arte è il fare, il produrre, non il nulla. I sostenitori rispondono dicendo che il silenzio sia la più alta forma d’arte e che, potenzialmente, in un foglio bianco vi sia riassunta qualunque cosa. Insomma, si apre una vera e propria battaglia dalla quale non sorge nemmeno un pensiero grigio, solo opinioni bianche o nere”. Gli studenti si guardarono perplessi.
“Un giorno però, un osservatore un po’ pignolo si sofferma a guardare quest’opera e scorge un minuscolo punto nero nell’angolo sinistro della tela. Immediatamente e senza pensarci due volte, grida alla truffa. Il caso suscita grande scalpore, tanto da allarmare gli artisti del silenzio. L’uomo è venuto lì per osservare un’opera completamente bianca, non vuole vedere nessun altro colore, così quel minuscolo puntino lo fa diventare furioso e chiede i soldi indietro. Dapprima, i gestori del museo non cedono, poi centinaia di altri seguono l’uomo e costringono gli operatori del museo a restituire gli incassi. Persino i musicisti del silenzio iniziano ad avere parecchi problemi. Ogni volta che per errore si sente il rumore dell’archetto di un violino abbassarsi, o il suono di un dito che preme per errore sul foro di un fagotto, a decine si alzano dalla platea e gridano alla truffa, pretendendo il rimborso. È la follia” Alcuni studenti risero.

“Questa grande rabbia continua finché, un giorno, un bambino non vede per la prima volta il quadro, quello che doveva essere tutto bianco. Ne rimane talmente colpito che, quando la madre gli compra una tela delle stesse dimensioni per dipingere, lui non si sente di colorarla. Pensa che, se quella al museo è un’opera d’arte, lo deve essere anche quella che la mamma ha comprato per lui. Modificare un capolavoro come quello sarebbe uno sfregio. Decide allora di portare la tela al direttore del museo, cosicché possa essere ammirata da tutti.
Il direttore ringrazia il bambino, prende la tela e la mette nel suo studio. Inizialmente ha intenzione di liberarsene, poi gli viene un’idea. Quella notte, quando tutti gli operatori museali se ne sono ormai andati, sgattaiola nella sala bianca e scambia l’originale con il quadro del bambino. Il mattino dopo, si siede accanto alla nuova tela e osserva i turisti fotografarla e comportarsi come se nulla fosse. Quella indifferenza lo lascia perplesso. Il giorno dopo prova a girarla sull’altro lato, ma anche questa volta nessuno si accorge del cambiamento. Fa ruotare il quadro ancora e ancora, ma nessuno sembra notarlo. Cosa significa? Si chiede continuamente. Vuol forse dire che la voce del silenzio è così ben aggrappata al bianco da restare tale comunque lo si guardi?”

La professoressa strinse gli occhi con interesse verso la studentessa. “Così, per darsi una risposta, il direttore modifica ancora la sala bianca. Questa volta, non c’era più un solo quadro, ma due: quello del famoso autore e quello del bambino, affiancati. La gente rimane sbalordita, cerca disperatamente di capire quale dei due quadri fotografare, e a decine si lamentano di aver subito l’ennesima truffa. Ma la cosa più divertente è che, anche i pochi che chiedono aiuto al direttore, non domandano quale delle due sia l’opera con il puntino, così da evitarla e fotografare il vero bianco silenzioso, ma quale delle due lo abbia, così da poter celebrare l’autore. Allora, al direttore è chiaro che il messaggio non è mai stato quello del silenzio, quanto più quello di aver creato qualcosa
di mai pensato, per quanto potesse essere stupido”

Non appena Elena terminò il racconto, gli studenti iniziarono a parlare confusamente. “Non è vero, non è così che deve andare. Il silenzio è bellissimo e un’opera bianca lo immortala perfettamente. Non si tratta solo di un fatto originale”, disse una. “Tu davvero guarderesti per ore un’opera completamente bianca?”, ribatté ironicamente un ragazzo alle sue spalle. “Certo! Molto meglio di quei quadri pieni di colori con delle Madonne noiosissime” “Anch’io la penso così!”, gridò una ragazza in fondo al gruppo.
“Si, ma dai, non mi dire che pagheresti davvero per ascoltare un concerto silenzioso”, rise un’altra ragazza con aria di scherno. “Che c’è di male?”, fece un ragazzetto basso vicino alla professoressa. “C’è che non ha senso! Il silenzio è bello, ma lo puoi fare anche a casa tua tappandoti la bocca una buona volta!”
“Guarda che c’è differenza fra il silenzio di un teatro durante un concerto e il silenzio di casa tua. Ma che ne vuoi sapere tu, sei superficiale”, ribatté il ragazzino basso. “Nascondetevi pure dietro la maschera del silenzio quando comprate libri bianchi, tanto sappiamo benissimo che è l’unica cosa che leggereste mai!”, fece un altro.

All’improvviso, nell’aula scoppiò un gran baccano, che la professoressa cercò di domare urlando ancor di più. Rimase solo Elena, muta come un pesce, ad osservare divertita, il rumorosissimo dibattito sulla bellezza del silenzio.

 


 

 

Francesca Giorlando è nata a Bologna nel 2000, ha diciannove anni e ha conseguito il diploma un anno fa. Attualmente è iscritta al corso di Scienze della Formazione primaria a Bologna, laurea che le permetterà di diventare maestra. “Il mio sogno -scrive- è sempre stato quello di diventare scrittrice, stupire i lettori con racconti leggeri, ma dal significato profondo. Nel tempo libero suono il violino e leggo con piacere”.

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Festa in maschera https://2020.passaggifestival.it/juan-javier-bolanos-festa-maschera/ Fri, 04 Sep 2020 15:25:34 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75436 Maschere e sogni, arte e medicina. Strani, affascinanti legami tra mondi soltanto apparentemente distanti. La storia di Juan Javier Bolaños

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di Juan Javier Bolaños

 

Traduzione: Francesca Pisano

Se dovessi scegliere uno solo tra i miei numerosi ricordi d’infanzia, senza alcun dubbio sceglierei i sogni.
Se potessi scegliere quali momenti della vita ricordare limpidamente, momenti per i quali gli ingranaggi della memoria non sono più fluidi a sufficienza, senza dubbio, sceglierei ancora una volta, i sogni. Pero’ non sogni qualsiasi. Sceglierei soltanto quelli in cui, senza curarmi di quel peso terreno che ti obbliga a pensare che senza
orientamento non puoi arrivare alla meta, ero solito perdermi sognando feste in maschera.

Venivo catapultato in un sentiero, fra siepi di diversa altezza che formavano un labirinto, attraverso il quale un fiume di umanità giocava a nascondersi. La musica, con violino e sassofono protagonisti, facevano da sottofondo. Vedevo coppie ballare e quando iniziavo a capire ciò che realmente cercavo, una sensazione di sorpresa mi assaliva alle spalle facendomi svegliare. L’effetto onirico mi mantenne in uno stato di benessere grazie al quale non provai mai la necessità di sottomettermi al giogo della droga, almeno durante l’adolescenza.
Solamente più avanti nel tempo, finito il liceo, riuscii a capire cosa davvero stessi cercando in quei sogni.

In uno di essi, camminando per una strada, giunsi in una piazzetta illuminata da candelabri di bronzo, dai quali si propagava una luce che colpiva una fontana e dove la folla si fermava ad ascoltare “Parlez moi d’amour” suonata a fisarmonica. Ognuno di loro indossava come parte del costume pezzi di pelle sotto forma di una maschera che nascondeva o meno le guance, regnava una gran varietà di travestimenti, di maschere in cuoio: alcune con sembianze di animali, altre piccole e rotonde sprovviste di decorazioni e che lasciavano intravedere il contorno del viso. Una di esse aveva una specie di barba appuntita sotto al mento e la bocca scoperta consentiva di bere o mangiare senza rimuoverla.

In quegli anni, la mia vita era un continuo interrogarmi su ciò che avrei dovuto studiare. Ero indeciso se diventare un “artista” o un “creatore”. Desideravo rendere tangibile l’immaginazione, in qualche modo rendere palpabile un’idea e fu grazie alla maschera che più mi colpì tra quelle sognate, che riuscii a prendere una decisione in merito. Era una maschera di cuoio nero, con il contorno delle sopracciglia molto marcato che delimitava due occhi a forma di occhiali da aviatore ed un naso lungo che somigliava al becco di un tucano e che, per via della sua lunghezza, copriva il resto del volto. Stimolato da una curiosità crescente, cercavo di avvicinarmi ad essa, ma il cammino sembrava infinito e come se non bastasse tutto questo accadde quando iniziai a pormi
un quesito durante il sogno. Sono convinto che con l’avanzare dell’età, perfino nei sogni di feste in maschera si
possano trovare l’orientamento, la propria bussola. Sono solito non riporre fiducia in coloro che cercano di nascondere dietro un viso freddo, impietrito, o dietro un sorriso forzato le loro vere emozioni. Tuttavia, devo riconoscere un tocco artistico in questo modo di essere, un qualcosa di teatrale. Credo che anche il gesto più insignificante sia degno di essere osservato ed analizzato.

Negli anni in cui ebbi questi sogni, non esistevano tutti i mezzi di cui disponiamo oggi per risolvere i nostri dubbi. Le biblioteche erano piene di curiosi, di studenti, di persone che si fingevano tali e di studenti che finivano per trasformarsi in vagabondi. “Buongiorno. Ha qualche libro sulle maschere?” domandai. “Cerca negli scaffali dei libri di “feste” mi risposero. Le migliaia di scaffali dedicati a questo tema non suscitarono la mia curiosità perché
sentivo di aver messo in discussione il mio prossimo futuro. Trascorsi quasi due settimane leggendo gli indici dei libri sulle feste storiche della cultura Inca, Azteca, Greca e Romana finché, come spesso succede, un bibliotecario si affezionò a me ed alla mia perseveranza. “Cosa cerchi esattamente?” domandò. “Cerco informazioni su una festa in maschera” risposi. Si diresse verso uno degli scaffali, scomparve alcuni istanti e mi portò un libro. “Forse questo ti sarà utile”.
La maschera del medico della peste. Questa era la risposta. “Dovrò studiare medicina”, mi dissi. Però, “se diventassi medico perderei molto della mia vena artistica”, pensai.

Come ho detto, nutro tuttora sfiducia verso le maschere quotidiane che le persone sono solite indossare. Tuttavia, la maschera del dottore della peste mi fu utile per capire che lui la indossava non solo per proteggersi dal contagio da parte dei suoi pazienti, ma anche per evitare di contagiare i pazienti stessi. Non era il suo proposito iniziale, ma grazie ad un artificio, la maschera, un’opera d’arte, evitava di contagiare i pazienti con
qualsiasi altra patologia. Il dottore della peste, inconsapevole, fu il pioniere della protezione fra medico e
paziente. Questo innegabile precursore della maschera chirurgica odierna si utilizzò sin dai tempi della piaga di Giustiniano e forse non ottenne mai il giusto riconoscimento, per il fatto di essere stata parte della divisa di medici considerati di seconda categoria. Neppure il medico della peste più famoso, Nostradamus, riuscì a predirne l’incredibile successo che avrebbe avuto.

Se dovessi scegliere un ricordo della mia infanzia, sceglierei proprio quei sogni di feste, quando conobbi la maschera del medico della peste. Utilizzarla più spesso ci permetterà di avvicinare sempre più l’arte con la medicina.

 


 

Juan Javier Bolaños è nato a Lima-Perù, si è poi trasferito in Spagna dove si è specializzato in Anestesia e Rianimazione. Ha presentato la prima edizione della sua prima opera, “Tomas-IN”, a Lima e a Barcellona (2018). Grazie al successo della prima edizione ha deciso che la seconda (pubblicata nel 2019) avesse una finalità sociale. Per questa ragione ha devoluto alla Fondazione internazionale “Josep Carreras” –Istituto di Ricerca contro la Leucemia- tutti i proventi derivati dalla vendita di questa seconda edizione. In tal modo “Tomas-IN” unisce letteratura, medicina e impegno sociale.
Ha partecipato all’antologia “Diciannove storie mediche sulla pandemia” progetto che ha riunito 19 medici per scrivere storie sul COVID-19 e che è stata presentata alla Fiera Internazionale del Libro di Lima 2020. A breve, la sua prima storia in italiano sarà presentata nel libro “Da un’avversità nasce un’opportunità”.

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L’uomo nuovo https://2020.passaggifestival.it/valentina-risi-uomo-nuovo/ Thu, 03 Sep 2020 13:08:30 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75381 Una storia di uomini, amori spezzati e destini interrotti, e poi, la vita che scalcia e scendi dalla balaustra per aprire la porta al futuro. La storia di Valentina Risi

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di Valentina Risi

 

Il malessere è iniziato da due giorni, il momento si avvicina. Trovare sollievo è sempre più difficile, Miriam apre lo stesso l’acqua calda, è già nuda, entra nella doccia, lascia che il getto scorra addosso. Edda, la confidente di sempre le aveva raccontato del rimedio della doccia, eppure lei, che adesso sta piangendo, non riesce a trovare tregua e solo il getto delle lacrime sembra sostenerla. Si asciuga con calma e si riveste, chiama un taxi e prende la valigia lì da mesi, le azioni sono rallentate dalle fitte ora sempre più vicine e dalla paura di svenire da un momento all’altro. È sola, ma questo lo sapeva già.

Il taxi l’accompagna al pronto soccorso dell’Ospedale Bambin Gesù, è quasi mezzanotte e per fortuna non c’è traffico, ma deve avere la faccia di porcellana perché subito arriva “Giulia”, così legge sul cartellino, la rassicura e la sostiene. Ormai manca poco. Giordano sceglie di venire al mondo in un lunedì qualsiasi: sono le 2.30, pesa 3. 340 kg ed è lungo 51 centimetri. Ha dormito tutta la notte e con lui anche Miriam.
Sono tornati a casa, Edda è passata a salutare e a dare una mano, Maddalena, la signora dell’appartamento accanto, ha messo dei palloncini di benvenuto all’ingresso eppure Miriam non accenna un sorriso, anzi ringrazia e chiede alle due amiche, con cortesia, di lasciarla sola.
Il bambino sta riposando nella camera da letto, così Miriam prova a riordinare la casa lasciata in tutta fretta qualche giorno prima, le pesa raccogliere gli asciugamani delle docce buttati a terra, il bicchiere con ancora la tisana al timo che non è riuscita a bere, la sua biancheria sparsa tra il bagno e il salotto, la canotta turchese cambiata in tutta fretta appoggiata sul lavandino. Quel disordine però le fa tenerezza e mentre si guarda attorno arrancando su ogni cosa, l’occhio le cade sulla fotografia lasciata in bella mostra nel terzo ripiano della libreria, un reparto visitato spesso: Leonardo Sciascia, Yukio Mishima e Amos Oz. Miriam la prende e la guarda ancora, si avvicina al balcone per osservarla meglio, è in bianco e nero e pure un poco scolorita.

Il ragazzo indossa una camicia chiara e dei pantaloni più corti delle sue gambe, un paio di bretelle li tengono su, una mano è nella tasca e l’altra tiene la sigaretta che sta aspirando. E’ in posa: sguardo da sbruffone sicuro del fatto suo, una sfrontatezza tradita da quella coppola sghemba che probabilmente lo fa sorridere perché la bocca accenna una smorfia divertita. L’osserva con attenzione e nota che l’occhio sinistro è socchiuso, come se il sole lo stesse accecando, ma non è una reazione, è una malinconia. Col destro pavoneggia la sua determinazione, dal sinistro sembra trasparire l’ombra di un turbamento intimo. Adesso Miriam copre con la sua mano l’occhio destro del ragazzo nella foto per guardare meglio il sinistro, si, è uno sguardo pieno di tristezza, lacrime pronte a
cadere e l’impotenza di uno che vorrebbe chiedere aiuto e non sa farlo.

Cleto, suo zio, il ragazzo di ventiquattro anni che in quella stagione indefinita posava spavaldo davanti alla macchina fotografica si è suicidato e nessuno ha mai saputo perché. Era solo, nel casolare di campagna, con
un buco in testa e il fucile ancora in mano. Lo trovò sua madre, caduto sulla paglia con la testa poggiata su un lato di sangue rosso scuro. Quel ricordo la scuote, le sembra di rompere uno gioco di specchi in quella fotografia. Si ritrae con un passo indietro prima di lasciarlo andare e la fa cadere a terra come un piatto bollente che ti scotta le dita. Va in camera da letto a controllare che Giordano dorma ancora: il petto del bambino si solleva lentamente, è tranquillo e dorme profondamente, si sente rassicurata, raggiunge il rubinetto e sciacqua via il turbamento.

Si rifugia in un ricordo di felicità. I primi tempi con Antonio, la smania di vederlo e l’emozione che la faceva
tornare ragazzina ogni volta che si organizzavano per incontrarsi, il timore, l’impaccio tutte le volte che lo
baciava e la voragine che le si apriva nel petto ad ogni separazione.
Giordano era stato concepito un sabato pomeriggio d’estate, un weekend che avevano tanto atteso e più
volte rimandato, esitanti, accampando impegni dell’uno o dell’altra, poi un venerdì avevano infilato qualcosa in uno zaino ed erano partiti per quell’albergo a picco sul mare.
Fecero il gioco di riconoscere le diverse imbarcazioni che navigavano o sostavano al largo; sotto la pergola c’era una coppia, leggevano e fumavano. La stanza era sospesa come un’altra barca al largo, tanto il mare era vicino che lo guardarono stesi sul letto. L’amore fu lento, mosso, il letto così le parve, beccheggiava in quell’amore calmo, un continuo baciarsi e accarezzarsi per tutto il pomeriggio. Sudarono, bagnati, nudi fino a tarda sera. Quando tornarono in sé, il mare era puntellato dalle luci delle barche.

Si separarono e non fu semplice. Dicono che la disperazione dell’addio è la vetta dell’amore. Chissà, Antonio semplicemente non ce l’aveva fatta a cambiare vita, a trasferirsi in un’altra città, a condividere la casa e la libertà con Miriam. Antonio sapeva e non diceva che era solo egoismo il suo, che l’amore non c’entrava, perché lui l’amava, che con lei era ogni giorno su un ottovolante, che poi venne il loro bambino, un’inedita felicità gli provocava una felicità disse. Non era sufficiente, pensò lei quando le disse solo “Non sono pronto” e se ne andò di punto in bianco. Miriam si tormentò per giorni, non riusciva a darsi una spiegazione e ogni ricordo era un brivido che la riconduceva a quella intimità che avevano costruito, non solo il sesso, erano le parole che si dicevano, era lo slancio di baci e altre carezze, era la naturalezza con cui si raccontavano e si capivano. Era quella complicità che li faceva sembrare una coppia di lunga data eppure si conoscevano solo da cinque mesi.

La fotografia di zio Cleto le ricordava le sensazioni dei primi mesi senza Antonio, riviveva quella disperazione che ti tortura giorno e notte. Pensò a Edda, a quanto fossero inutili i suoi tentativi di sollevarle il morale mentre lei sprofondava senza reagire in una sua solitudine che in quei momenti soltanto le sembrò di capire.
Ci fu una notte, al quinto mese di gravidanza, che Miriam si era alzata di scatto e in dormiveglia aveva spalancato la finestra della sua stanza, fuori c’era la luna piena che illuminava gli alberi sulla strada, le luci nelle case erano tutte spente e sotto la sua finestra, quattro metri più in basso, la luce lunare riflessa dalla carrozzeria di una fila di macchine parcheggiate lì sotto. Un paesaggio notturno inedito, le parve per qualche istante, mai la città le era sembrata emanare una sua sconosciuta poetica. Con le mani aggrappate e la pancia appoggiata contro il davanzale, la gamba pronta a scavallare, Miriam penso che sì, era una giusta soluzione, un altro atto di liberazione poteva essere l’ultimo atto della sua vita, perché nel pieno della solitudine non c’era spazio per lei e per il bambino.

Ma a quel punto Giordano aveva iniziato a scalciare, le sembravano i piedi quelli che spingevano sullo stomaco e la spinta le arrivava fino al petto, un altro movimento nella parte basse del suo ventre, come un pesciolino che nuota da una parte all’altra della vasca, salì il singhiozzo, si staccò dal marmo e cominciò ad accarezzarsi la pancia. Piangeva, si disse, con gocce che anticipano un violento temporale di fine estate.

Così la fotografia dello zio Cleto diventò un pugno di coriandoli, sfogliandoli, li chiuse nel sacco verde della pattumiera, si assicurò che Giordano non si fosse svegliato e corse a buttare tutto nel cassonetto fuori al palazzo. Rientrò che in casa c’era un’atmosfera diversa, le sembrò che il disordine avesse ceduto a un bozzolo confortevole dove il pianto di Giordano, sveglio e affamato, le sembrò sostituire tutti i vuoti e le voragini di quelle storie di uomini, dissolvendo tutta la nostalgia rivissuta in quel pomeriggio, il primo pomeriggio che trascorrevano insieme a casa, il primo di una lunga serie con un uomo nuovo.

 


 

Valentina Risi, 36 anni di Palomonte in provincia di Salerno, è una conduttrice radiofonica di una emittente locale e da tre anni è stata eletta consigliere comunale nel suo paese. “Leggere, passeggiare e viaggiare -ci scrive- sono le mie attività preferite anche quando il tempo libero scarseggia”.  

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L’ultimo verde https://2020.passaggifestival.it/mattia-bernardini-ultimo-verde/ Wed, 02 Sep 2020 15:16:10 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75349 Il sole caduto sulla terra, la vita che spegne i suoi ultimi fuochi, la lotta per sopravvivere: è tutto un gioco nelle mani di un bambino? La storia di Mattia Bernardini

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giunco-storia-mattia-bernardini

di Mattia Bernardini

 

Il cielo grigio come la polvere si rifletteva cupo e limaccioso sulla superficie leggermente increspata dell’acqua torbida. Era un miracolo, che ci fosse ancora acqua, pensò distrattamente Groodie. Sporca, piena di fango e pietre, ma pur sempre acqua. Si chinò a bere, con rapidi colpi della ruvida lingua, sempre tenendo un occhio fisso intorno. Di alberi ne erano rimasti in piedi veramente pochi. Di foglie verdi, neanche a parlarne.
C’era solo lei… Impavida, gracile per quanto forte, lontana e irraggiungibile. In qualche modo era riuscita a sopravvivere per tutti questi lunghi anni di stenti e fatica… Una piccola e rigogliosa mangrovia.
Proprio al centro della tetra palude che un tempo, quando Groodie aveva solo poche lune, era parte di una rigogliosa foresta tropicale che ospitava più forme di vita di quante se ne possa immaginare.
Da quando il disco infuocato rosso era sparito, inghiottito da quel mare di polvere e nebbia color antracite che era diventato il cielo della Terra, lentamente (ma nemmeno troppo) tutto si era trasformato, e la grande foresta verde era diventata una palude fangosa colma di scheletri, ossa e marciume. Era tutto spento, grigio e morto, da quando la luce se n’era andata. Solo i fuochi fatui brillavano di notte, leggere fiammelle blu che danzavano galleggiando leggiadre sulla superficie dell’acqua melmosa. A parte questo, null’altro risplendeva più di luce propria.

Groodie aveva smesso da tempo di sperare nel ritorno del disco infuocato, su nel cielo. Aveva smesso da tempo di struggersi con l’idea del ritorno ai tempi gloriosi dei suoi primi anni di vita. Il grande sasso incandescente caduto dal cielo aveva portato via, con il tempo, anche la sua speranza, oltre che tutto il verde della Terra.
A volte si domandava ancora perché, mentre tutti gli esseri morivano di fame e stenti, lui era riuscito a sopravvivere. La verità era che probabilmente era stato un puro miracolo. Per lunghi anni aveva migrato nelle giungle ricoperte di polvere, scappando dai predatori, nutrendosi delle foglie ingiallite delle piante ormai morte a causa dell’assenza del disco infuocato. Poi, la giungla era diventata un deserto straziante e spento. I colli lunghi, che essendo enormi creature necessitavano di molto cibo, erano stati fra i primi a desistere, seguiti poi da tutti gli altri. E infine, anche i predatori avevano cominciato a morire, per la mancanza di prede. Groodie aveva smesso di preoccuparsi di tutto questo da molto tempo… Una sola preoccupazione lo divorava, in maniera assurda e maniacale… Quella di continuare a sopravvivere.

La mangrovia era là, non troppo distante, al centro della palude. Bevve ancora qualche sorso, poi alzo la testa con il pesante corno allungato posteriore, e sempre guardandosi intorno, indietreggiò guardingo.
Lo spinosauro era da qualche parte, nascosto nell’acqua. Enorme, mostruoso. Come poteva un creatura così mastodontica essere sopravvissuta per anni? Come poteva aver trovato sostentamento per la sua mole, in quel deserto del nulla, grigio e tetro come le lande desolate oltre i picchi innevati?
Forse, esattamente come era successo a Groodie, per puro caso. O più probabilmente, come testimoniavano le innumerevoli ossa che ogni tanto tornavano a galla fra le acque limacciose, si era eletto guardiano della palude, ed il prezzo per chi si avvicinava all’isolotto verde centrale non era nient’altro che una dolorosa e straziante morte. Il problema era che Groodie doveva arrivare alla mangrovia, se voleva assaporare ancora l’ultima manciata di foglie miracolosamente verdi rimaste nella palude. E lo spinosauro, allo stesso modo, doveva affondare i suoi denti aguzzi nella carne di Groodie, se voleva sperare di sopravvivere qualche altra luna ancora.
In un modo o nell’altro, uno dei due non avrebbe più visto la luce… Ammesso che fosse mai tornata a splendere, prima o poi.

La lunga coda di Groodie urtò un tronco spezzato, che si sbriciolò come polvere pochi instanti dopo. Il terreno era scuro, fangoso, coperto di piccole chiazze bianche di gelo e neve. Non esistevano più le stagioni, da quando il sasso era caduto ed il disco infuocato era sparito dal cielo. Non esisteva più pioggia né vento. Solo un inferno di polvere e gelo. Groodie guardò verso centro della palude. Qualcosa si mosse, fra la melma. Nel punto in cui
l’acqua era più profonda, un paio di bolle salirono in superficie, gorgogliando.

Faceva freddo. Sempre troppo freddo, da quando il disco infuocato se n’era andato. Un volatile nero si stagliò nel cielo nuvoloso, seguito a ruota da un altro paio. Erano piccoli. Quelli grossi, con le ali enormi ed una protuberanza cornea come quella di Groodie dietro la testa, erano spariti da un pezzo. E anche quelli piccoli, ormai non ne potevano più. Per anni avevano rosicato tutte le ossa delle carcasse che trovavano, ma non era abbastanza. Niente era abbastanza, per nessun essere… Esclusi ovviamente i coccodrilli, che per qualche assurda ragione, continuavano imperterriti la loro esistenza come se nulla fosse accaduto.
A proposito, c’erano coccodrilli nella palude, oltre allo spinosauro?? Groodie non lo sapeva. Ma presumeva proprio di no. Quel mostro non avrebbe mai lasciato che qualcun altro girellasse indisturbato intorno alla mangrovia.

La mangrovia… Riusciva a vederla, seppure lontana, ma più che altro, riusciva a sentirla. Quel profumo inconfondibile di clorofilla, così soavemente dolce in mezzo ad un mare di marciume, fango e morte. Così irresistibile… Le bolle sparirono. Groodie aspettò qualche secondo, poi entrò con le grandi zampe nell’acqua
scura. La coda lo bilanciava perfettamente, mentre affondava sul fondo melmoso, e si lasciava andare immergendosi con gli occhi a pelo dell’acqua. Innumerevoli sciami di piccoli insetti tempestavano la superficie della laguna. Per qualche strano motivo, come i coccodrilli, anch’essi non volevano mollare l’osso, e continuavano imperterriti ad infestare ogni luogo, proliferando nelle carogne. L’acqua era densa, ed era difficile nuotare. Ma Groodie era abituato. Il suo corpo squamato e voluminoso si muoveva restando a galla senza sforzo. La mangrovia era là, ormai sempre più vicina. Un’isola galleggiante di tronchi ed arbusti gli sbarrava la strada, proprio a metà via. Fece per aggirarla, accorgendosi troppo tardi del proprio errore.

Una voragine si apri in mezzo ai rami. L’acqua fangosa schizzò ovunque. La vela enorme fu la prima cosa ad uscire fuori. Un ampio ventaglio costellato di lunghe spine ossee che scaturivano dalla schiena del mostro disegnando un profilo a cresta d’onda. Poi la coda, enorme, possente. Infine, la testa mostruosa, simile a quella dei coccodrilli, ma ancora più grande, con gli occhi rossi iniettati di sangue ed i denti aguzzi che scintillavano nel
buio della palude. Groodie si allontanò con un vigoroso colpo di coda, ma il mostro era agile, veloce, enorme. Gli
si gettò addosso, azzannando l’aria a pochi passi dalla sua schiena. Una, due, tre volte. L’aveva mancato di un soffio! Groodie lottava nuotando disperatamente per raggiungere la mangrovia. Voleva solo assaggiare
per un’ultima volta una foglia verde… E morire così felice, con il sapore idilliaco sulla lingua ruvida, prima di spirare e lasciare questa esistenza di stenti. Un’ultima volta, un ultimo istante. Un pensiero a tutti i suoi antenati, agli spiriti della foresta, ai tempi gloriosi in cui le creature con le tre corna correvano in branco per le praterie.
Lo spinosauro gli piombò addosso lanciando un gemito di puro odio e furore. Gli occhi accecati dalla fame, le zanne avide di sangue, gli artigli ricurvi e letali. Groodie c’era quasi, ancora qualche passo, ancora un piccolo sforzo… Ecco, la foglia verde, ecco la mangrovia, ecco gli antenati che lo salutavano dal cielo…

“Matteo! È pronta la cena!” urlò la mamma, prima di piombare in camera all’improvviso. Il bambino lascio cadere i pupazzetti per lo spavento.
“Dai, su, non farmelo ripetere un’altra volta. Sono dieci minuti che ti chiamo!” disse la mamma, con un sorriso sulle labbra. “Mamma, sto giocando!” protestò Matteo, raccogliendo i suoi dinosauri dal gommoso tappeto rosso componibile. “Forza, non fare i capricci” insistette la mamma. “Ho fatto le cotolette di merluzzo che ti
piacciono tanto”. Gli occhi del bambino si illuminarono. “Con gli spinaci??” chiese.
La mamma sorrise ancora di più, mostrando i denti bianchi. “Sì, certo, con gli spinaci. Forza, vai a lavarti le mani e vieni a tavola”. Matteo corse in bagno, si lavò le mani, e poi si gettò a tavola stringendo il coltello e la forchetta con i pugni, e battendoli sul tavolo. “Merluzzo e spinaci!”, urlò tutto contento.
Il babbo rise. Il televisore era sintonizzato sul telegiornale, a basso volume.
“Possiamo spegnere quella roba, almeno mentre si mangia??” disse la mamma. Lui alzò le spalle, e premette il tasto sul telecomando. Lo schermo mandò una scintilla, e l’immagine morì, spegnendosi di colpo.
“Matteo fai piano, sembra che non mangi da un secolo!”.
“Groodie non la penserebbe allo stesso modo” replicò il bambino, con la bocca piena. “Metti che cade un meteorite e muoiono tutte le piante?? Bisogna mangiare velocemente, finché si può!” concluse euforico. Gli spinaci erano deliziosi, e lui ci andava matto. Proprio come Groodie. La madre alzò gli occhi al cielo. “Forse non è stata una buona idea regalargli il cofanetto di Jurassic Park per il compleanno” ammise, allungandosi sul tavolo per prendere la brocca d’acqua. Il padre allungò una mano e scompigliò i capelli del figlioletto.
“Invece io penso proprio che sia stata una ottima idea”, sentenziò soddisfatto.

Oltre la finestra, il disco infuocato era ancora un pelo sopra l’orizzonte, ad occidente. Lanciava i suoi raggi ovunque, colorando di arancione il profilo dei monti, e facendo risplendere di rosa e oro i contorni delle candide nubi che navigavano lente in cielo. Alla fine, dopotutto, era tornato.
E ci sarebbe rimasto ancora per un bel pezzo.

Nota dell’autore
Ovviamente, come è ben noto, al momento del limite K-T, ovvero la grande estinzione di massa del Cretaceo Paleocene (sessantacinque milioni di anni fa), sia lo Spinosauro che il Parasaurolophus erano già scomparsi da qualche decina di milioni di anni. Ma in fondo, un bambino di sette anni potrebbe anche non saperlo, no?

 


Mattia Bernardini, trentatré anni, vive a Sestino in provincia di Arezzo, è un ingegnere elettronico, musicista e scrittore italiano. Mezzo toscano e mezzo romagnolo, vive al confine fra queste due regioni in mezzo ai monti selvaggi dell’Appennino. Oltre al lavoro come progettista hardware, suona la chitarra elettrica in due gruppi musicali italiani che godono di una buona notorietà all’estero: Manovalanza e NH3.
Fin da ragazzo ha sempre tenuto diari personali che narrano le avventure vissute suonando in giro per l’Italia e per il mondo. Nel 2017 una di queste avventure è diventata la sua prima pubblicazione. Il libro, intitolato “La buena onda” (StreetLib), è un dettagliato diario di viaggio della rocambolesca tournée dei Manovalanza in Messico del 2015.
“Qualche rotella fuori posto” è la sua seconda opera, un romanzo originale in cui i temi principali sono skateboard, musica, emarginazione e, soprattutto, amicizia.

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E’ finita la scuola https://2020.passaggifestival.it/ilva-sartini-scuola/ Tue, 01 Sep 2020 17:03:27 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=75303 Le vicende di una bambina e della sua famiglia attraverso gesti ripetuti, passioni più o meno segrete e piccoli drammi quotidiani. La storia di Ilva Sartini

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di Ilva Sartini

 

Anna, non ti chiamo più. Se mi fai uscire un’altra volta, le prendi!” la voce della madre, quella di quando è arrabbiata, è inconfondibile. E non lascia scampo.
Arrivo, mamma. Arrivo subito” mentre risponde, Anna ha già chiuso il quaderno, riposto la penna e si è incamminata verso la scala di casa. Si è alzata presto, anche oggi. La sveglia non è suonata, la madre non è entrata in camera per farle fretta usando lo stratagemma dell’odore di caffellatte dalla cucina. Fatica Anna ad alzarsi per andare a scuola. La sua casa è lontana dal paese: ci vuole più di un’ora di cammino, lungo quel viottolo sterrato, pieno di sassi e tutto in salita. Anna, la dormigliona, come la chiama il fratello, non si è ancora abituata alla levataccia nemmeno ora che il sole è alto quando escono di casa.
D’inverno devono partire che è ancora buio, se vogliono arrivare in tempo. La sveglia suona in camera dei genitori, ma Anna non la sente o fa finta di non sentirla. Allora la madre le prepara una bella tazza di caffellatte bollente, che Anna adora, entra in camera e lascia la porta aperta perché quell’odore la convinca a mettere i piedi a terra. Prima però deve infilarsi i vestiti perché in quella camera gelata, dove i vetri sono smerigliati dai cristalli di ghiaccio, non si può mettere neppure un piede fuori dalle coperte senza vestirlo. È sempre tardi quando riesce a berlo il suo caffellatte che ormai è tiepido. Così è meno buono, ma almeno può ingollarlo in un
sorso e non perdere altro tempo.

I primi passi sono ancora con gli occhi semichiusi, ma il freddo glieli apre in fretta. E poi deve aprirli per forza, perché Piero le stacca subito la mano dal braccio a cui si è appoggiata. Piero, il fratello, è scocciato di doversi occupare di Anna: lui è già un ragazzo, all’ultimo anno di avviamento commerciale (le medie non ci sono ancora al paese), il più grande della compagnia che s’ingrossa lungo la strada per la scuola. Ha messo gli occhi sulla ragazzina bionda del podere di mezzo, che si scioglie le trecce quando lo vede sbucare dalla curva e lo aspetta inventando mille scuse. Quella palla al piede di Anna, che quest’anno fa la prima elementare e gli è stata affidata, lo fa vergognare con le sue domande indiscrete. E’ un’impicciona: vuol sapere tutto, chiede e poi racconta alla madre, anche quello che non dovrebbe. Soprattutto ora deve tenerla a bada con le minacce: guai se la madre sapesse che gli piace trecce bionde.

Ma cos’hai fatto tutta la mattina?” la voce della madre è ancora arrabbiata. Quando chiama, vuol dire che la pasta è in tavola e bisogna affrettarsi. La madre ha poco tempo per cucinare.
Prepara il sugo mentre lavora alle sue macchine da maglieria, ma lo fa fresco ogni giorno: un buon ragù arricchito di spezzatino, così in un unico tegame prepara primo e secondo. Risparmia tempo, ma lo prepara con cura e vuole che il cibo venga gustato al meglio. Pretende rispetto per il suo lavoro casalingo, concentrato nel tempo sottratto al lavoro che le procura un guadagno. E vuole rispetto anche per la carne che riesce a mettere in tavola ogni giorno. È una novità, conquistata col suo lavoro di maglieria che ha portato la famiglia fuori dalla
miseria.

“Ho già fatto un sacco di compiti” comunica, orgogliosa, Anna. “Ma hai tutta l’estate! Che bisogno c’è di fare subito tutti i compiti?” la madre preferirebbe che Anna giocasse un po’ di più. Non che non sia contenta del suo impegno e del successo scolastico. Anzi! Ne è proprio felice. Anna è l’opposto di Piero. La madre l’ha fatto bocciare in quinta elementare per aspettare che al paese attivassero la prima classe di Avviamento commerciale: non vuole vederlo bighellonare per strada un intero anno, con il rischio che poi a scuola non voglia tornarci più. È stata una gara dura! Piero si è arrabbiato molto per quella impuntatura della madre che ha convinto anche il maestro. Ha urlato “Piuttosto mi ammazzo” e ha iniziato a sbattere la testa contro il muro. La madre l’ha afferrato per i capelli per farlo desistere, ma anche punire per quel gesto sconsiderato. Alla fine Piero si è rassegnato: in fondo andare a scuola fino a quindici anni, guadagnandosi la promozione con un filo di gas, grazie a un’intelligenza spiccata che compensa l’assoluto disimpegno, è sicuramente sorte migliore di quella della gran parte dei suoi amici che passano pomeriggi ed estati a parare le
pecore o le mucche. E, ora che hanno smesso di andare a scuola, devono sgobbare nei campi,
come faranno per tutta la vita.

Ormai si è fatto davvero un bel giovanotto e la strada per la scuola è più corta da quando Laura, la ragazzina del podere di mezzo, è sbocciata come un fiore: sono bastate le vacanze d’estate a trasformare la ranocchietta legnosa in una ragazzina deliziosa. Piero sorride al pensiero della rima che gl’ispira.
Ma proprio quest’anno la sorellina ha iniziato la prima elementare e la madre vuole che Piero non la perda d’occhio finché non entra a scuola. Già, Anna è sempre stata la principessa, quella col vestito dai campanellini d’oro, come dice la vicina invidiosa; quella che deve stare attenta a non farsi male, quasi fosse una bambina di città.

Da bambina di città ha imparato anche i modi, l’estate scorsa. L’ha passata al mare, a casa della zia. E al rientro, la madre le ha imposto di non pronunciare più nemmeno una parola di dialetto, la lingua madre di Anna come di tutta la famiglia. “Adesso devi parlare in italiano, se vuoi essere brava a scuola” ha detto, perentoria! Piero è stato pronto a prenderla in giro il giorno in cui il cugino, il figlio della zia del mare, più grande di tutti loro, le ha teso un tranello. Saputa la storia dell’italiano, ha provocato Anna: “Dai, vediamo allora se lo sai parlare
l’italiano. Dì Io sono una stupida”. Ma Piero si è dovuto ricredere e ha provato orgoglio per la capacità di reazione della sorellina: Anna ha risposto, in italiano perfetto Tu sei un cretino strappando un sorriso rispettoso al cugino grande che, anziché arrabbiarsi ha commentato La risposta è esatta. Insomma Anna ha sempre avuto un bel caratterino, è una bambina intelligente e innamorata della scuola e della cara maestra Rosina.
Ora che la scuola è finita, Anna ha passato la prima mattina di vacanza a fare i compiti: ha iniziato molto presto, perché si è svegliata alla solita ora e senza sveglia, ha fatto la sua colazione veloce e improvvisato uno scrittoio sulla panca sotto il ciliegio.

Le ore passano veloci: Anna ama la scuola, ma soprattutto non sa cosa fare a casa. Sarà stata l’estate al mare a conquistarla alla vita frenetica della città; sta di fatto che quest’inverno ha molto sofferto per l’isolamento della vita in campagna. Anna ama la compagnia e il gioco con gli altri, ma a casa sua di bambini non ce n’è. E neppure nelle altre case del piccolo borgo in cui vive ha tanti amici. Ci sono solo altri quattro bambini di età vicina alla sua, ma sono così poveri che non possono perdere troppo tempo a giocare: quando non sono a scuola, devono badare le pecore. E non sono proprio amici, perché troppo diversi: lei ha giocattoli, che non vuol prestare. Loro fanno giochi avventurosi, che lei non può fare “Anna non salire sugli alberi, che cadi. Anna non correre, che sudi. Anna non attraversare il filo spinato, che ti graffi” le parole della madre le ha sempre nelle orecchie. Una volta ha risposto “Uffa!” e si è presa un ceffone che le ha lasciato il segno delle dita sulla guancia. Adesso “Uffa!” lo pensa solo. Allora fa i compiti, così si fa compagnia.

E poi aspetta i cugini dalla Francia: arriveranno a giorni, meglio essere libera al più presto, così potrà giocare con loro. E non si potranno neppure più fare i compiti, quando saranno arrivati: sono così chiassosi! Anche simpatici, ma sempre in movimento. E non stanno zitti un minuto: che bel suono ha il francese! Se si fermassero un po’ di più Anna potrebbe imparare a parlarlo.
Mangia in fretta, oggi. Non solo perché la pasta è buona, molto più buona oggi che è appena cotta e non conservata per ore fra due piatti, come quando torna da scuola. La madre lo fa per tenergliela in caldo. Anzi la tiene fra due piatti, sulla caldarina della stufa a legna, così il vapore non la lascia raffreddare nemmeno un po’. Ma quando Anna alza il piatto superiore, così caldo che spesso si scotta le mani, la pasta è raddoppiata di volume, asciutta e collosa. Il più delle volte finisce in un pianto: nonostante la fame, non riesce proprio a mandarla giù. La madre le sta sopra e insiste. Insiste fino a quando Anna non riesce più a trattenere un conato. Allora sposta, arrabbiata il piatto e le dice “La mangerai stasera”. Per fortuna poi arriva una delle bambine della casa accanto, che se la mangia con gli occhi, prima di divorarla davvero in tre bocconi.

Ma oggi la pasta è proprio buona. “Mangia piano” dice la madre “non fare la maleducata”. Ma Anna non può mangiare piano, deve tornare al suo quaderno. Lo ha lasciato sulla panca. Non ci ha pensato prima, ma ora teme gli succeda qualcosa: un gatto, un uccello, una sventolata potrebbero rovinarlo. Non può dirlo alla madre, si arrabbierebbe per la sua incuria. Deve mangiare in fretta. Anche se non servirà. Deve aspettare che tutti abbiano finito, prima di andarsene. Tocca a lei sparecchiare. Non c’è nemmeno bisogno che la madre lo ripeta. È
compito suo. Allora freme per la lentezza del fratello. Guarda Piero seduto di fronte a lei e sussurra “sbrigati”. Lui lo fa apposta, mangia ancora più lento. Solo oggi, perché di solito finisce rapidissimo il suo piatto. No oggi spilucca e sospira “Sei innamorato?” lo prende in giro il padre. Piero arrossisce. “Eh sì” Anna conferma “Piero è innamorato”. Il fratello la fulmina con lo sguardo e le dice, a denti stretti “Dopo facciamo i conti”. Ma continua a masticare lento. Anna, rossa per la rabbia, si alza e scompare dietro la macchina da maglieria.
Sbuca dopo qualche minuto, con due trecce di lana gialla fissate sopra le orecchie e cantilena “Sono l’innamorata di Piero, sono la fidanzata di Piero!” prendendo il fratello di sorpresa.
“Non farai lo stupido con la Laura del podere di mezzo, spero!” Dalla vampa che ha coperto di fuoco il volto di Piero, la madre capisce che si tratta proprio di lei e continua “E’ ancora una bambina, lasciala perdere. Non costringermi a dire al padre di chiuderla in casa!” Anna capisce di aver parlato troppo, ma ormai è tardi.
Vede Piero uscire come una furia e vorrebbe corrergli dietro.

“Tu finisci di sparecchiare, prima di uscire” la madre non le lascia scampo. Sparecchia in un soffio e si precipita dalle scale. Ma è troppo tardi! Il disastro temuto è già lì!
Il quaderno è aperto sull’ultima pagina, quella del disegno quasi terminato. Ritrae un prato di margherite, una quercia e una casa. Davanti, in piedi vicini, due adulti, un ragazzo e una bambina: sono Anna con i genitori e Piero. Anna ci ha impiegato tre quarti della mattinata e ne è davvero soddisfatta: così bene non le è mai venuto e quando ha chiuso il quaderno ha pensato “Non so come ci sono riuscita: così bello non mi verrà mai più”. Ora, alle orecchie della bambina sono state appuntate con due spilli altrettante ciliegie: sono rosso scuro e
schiacciate fino a farne uscire tutto il succo, colato sulla pagina e su quelle sotto, le pagine del tema e del riassunto.

Un rumore fa alzare gli occhi di Anna, che vede Piero ridere sardonico a cavalcioni sul tronco del ciliegio.
Anna ha già le lacrime che le fanno prudere la gola: le ricaccia in fondo, dà un’alzata di spalle e rigira il sedere per allontanarsi mentre lancia verso il ciliegio il quaderno e grida strozzata “Tanto non mi piaceva!”

 


 

Ilva Sartini è nata a Pennabilli e vive a Pesaro. Ha una formazione superiore classica, e una laurea in Filosofia. Dopo un breve periodo di supplenze nella scuola pubblica, ha lavorato per oltre trent’anni alla Confesercenti. Ha amato la politica, alla quale ha dedicato molto del tempo oltre il lavoro, e ricoperto ruoli amministrativi, il principale dei quali assessore all’Urbanistica a Pesaro. Si è occupata, in diversi ruoli, di politiche per le donne. Ha un marito, una figlia e un nipotino.
A fine 2016 ha pubblicato, con “Affinità Elettive”, il suo primo romanzo “Al posto del dolore”. Oltre a romanzi, scrive racconti e poesie. Il racconto breve “Le pieghe del pane” è stato pubblicato nell’ Antologia “Scritti Pesaresi Tempesta virale”. Il racconto “Un secolo rotondo” uscirà a Settembre nell’antologia “Il Tempo sospeso-Decameron 2020”. Nel mese di gennaio 2021 sarà pubblicata dalla “Bertoni Editore” una raccolta di poesie dal titolo “Pensieri partecipi”. Il suo secondo romanzo, “Il dono di Amina” ha ricevuto una proposta di contratto editoriale.

 

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Insonnia https://2020.passaggifestival.it/paola-dede-insonnia/ Thu, 20 Aug 2020 16:09:08 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=74601 Più che teoria, è, l'amore, come molliche di pane, cibo che ci serve per vivere. La storia di Paola Dedè

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insonnia-storia-dede

di Paola Dedè

 

Tra 5 minuti stasera dormirò. Non ci sono quelle voci feroci laggiù, sotto le mie finestre. C’è solo un quieto mormorio. L’altra sera invece le ho dovute sopportare fino alle 1.40. Ad alto volume.
Volevo morire. Non chiamo più i carabinieri, nella questione non servono a nulla. Mi rimane l’urlo. Cerco di non abusarne per essere abbastanza credibile. Della serie ‘quando ce vò ce vò‘. Ma l’altra sera non ne ho avuto comunque il coraggio. Eppure per ben tre volte mi ci sono alzata dal letto, diretta alla finestra. Troppo rapidamente, roba che svengo ogni volta per la pressione bassa. Ma nel tempo di riprendermi appoggiata al davanzale, sento bene i discorsi, che si facevano sempre più fitti. Allontanavo la tapparella… desistevo e tornavo a letto. No non è il momento mi dicevo.

C’è un ragazzo che si lamenta con un compagno, che chiamerò Voce Autorevole, per essere da lui continuamente deriso. Il Ragazzo ha una voce stridula e nervosa, si sentiva Ferito.
V.A. gli risponde con tono pacato e drammatico, altisonante. “Ah tu ti senti solo? E pensi di essere l’unico? Anche lui è solo, anche lui è solo, anche lui”. (Ma che ha la lista dei soli?). “Sì ma…” (e non capisco che dice Ragazzo Ferito). “Ah sì? Ma ne sei sicuro? Eh? Ne sei proprio certo? Sai cosa dice Tizia di te? Che sei un fulminato”. “Sì, sono un fulminato, allora?”. “E sai cosa dice di te Unaltratizia col Suotipo?” (e qui abbassa la voce, non si sente nulla).
Ragazzo Ferito però balbetta qualcosa. V.A. riprende: “Almeno io ti sfotto davanti… ti derido ma lo faccio con te. Ma sai perché? Perché io ti ho accettato. Ti ho accettato così come sei”. (Santo cielo ma qui sta avvenendo un dramma umano, non posso fare un urlo e stroncare sti momenti verità, tutte a me capitano… cheppalle! ritorno a letto-stanotte non si dorme-domani lavoro-la sveglia-non ce la farò…).

Però, tra il mancato sonno e la sua causa vengo attanagliata da una profonda tristezza. Da una parte bello che si parlino, a cuore aperto. Chi reclama attenzione e rispetto, chi si difende e giustifica, anche a scapito degli assenti, veramente. Ma dall’altra… quanto manca in giro l’amore, quanto… ma dov’è. Forse non è neanche dove lo metteresti per definizione, intendo nella famiglia.
L’amore non è una teoria, l’amore se c’è lo respiri, lo tocchi con azioni compiute e ricevute. Tutti i giorni. È rassicurante. È forza. Non è possibile che queste anime solinghe si sbaglino così. Sarà l’età difficile, i tempi complicati? Eravamo anche noi così… non mi sembra. O forse si, ma non ci facevo caso. O forse le situazioni sono sempre le stesse, in tutte le generazioni, ma a macchia di leopardo. E che mina vagante può rappresentare un ragazzo adolescente molto infelice, che non si sente amato, che nemmeno fra gli amici trova la sua tana. Una mina vagante, soprattutto per se stesso.

Più ci ripensavo e più arrivavo alla conclusione che Ragazzo Ferito era quello della cornacchia sgozzata dell’altra notte alle 3. Che gridava il suo richiamo, la sua richiesta di attenzione, simbolo del reclamo rivolto alla sua mamma disattenta di un’imbeccata d’amore. Ho capito, nel tempo, che la mancanza d’amore può manifestarsi in rappresentazioni simili alla pazzia. O questo benedetto amore è sopravvalutato?

E mentre mi faccio i miei soliti film, i pensieri si confondono con le voci che si diluiscono sempre più nel profondo della notte… E poi suona la sveglia, di già. E il primo pensiero… l’amore dove sta, Ragazzo Ferito lo sta cercando. Guardo di sotto, così…
Le chiome dei tigli, illuminate dal primo sole, respirano di un vento leggero.

 


Paola Dedé vive nella provincia di Ancona. “Qui il mare è a portata di mano -ci racconta- e, guarda caso, io lo amo, visceralmente. In tutte le sue versioni. E come su un’onda oscillo di continuo, tra stupore e dolore, azione e astrazione, gioia della moltitudine e della solitudine, ricerca della pura verità e del sogno incantato…
Finora non ho mai conosciuto la noia”. 

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Effetti personali e altri inciampi https://2020.passaggifestival.it/clara-sant-inverno-effetti-personali/ Tue, 18 Aug 2020 15:02:08 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=74442 Un uomo ed una donna si intravedono dentro fotogrammi, schegge taglienti e dolorose di un passato senza scampo. La storia di Clara Sant'Inverno

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di Clara Sant’Inverno

 

Molti hanno paura delle cose abbandonate, temono la sporcizia, o persino una bomba. Così nessuno le tocca, ma non era il suo caso, era molto curiosa. La nuova casa era nel quartiere di San Frediano e in realtà era una vecchia casa, con un grande camino e oggetti dei proprietari precedenti, che sembravano essere partiti di corsa: poche cose ben riposte in un piccolo bagaglio e via. Tutto il resto adesso era suo ed erano soprattutto libri – nei cassetti, sulle mensole, sopra i comodini, sotto i divani – dappertutto. La ristrutturazione non sarebbe stata lunga, ma trovare un proprietario per tutti quei libri e quegli oggetti, era un’altra storia.

La sera attraversava ponte Santa Trinità ed entrava in quella casa d’altri, spalancava le finestre, lasciava entrare il rumore della strada e il brusio delle trattorie. Poi iniziava ad aprire cassetti e armadi, credenze e comodini, sfogliava e leggeva e una bolla di silenzio avvolgeva tutta la casa. Era presa a tal punto, che gli amici dicevano che preferiva quei libri a loro. Se questo era ciò che appariva, dipendeva dal fatto che era sospettosa, diciamo la verità, non si fidava di ciò che era gratuito. Cominciò a chiedere in giro, al lattaio e al vicino misantropo che la osservava dalla finestra e ognuno le raccontava un particolare dell’uomo e della donna che avevano abitato quella casa, una sensazione o un presentimento. Poi però per non essere sedotta o intrappolata da quelle voci, lei apriva un libro e alcuni istanti di quelle vite, riusciva a coglierli così: la guida di Trieste, la ricevuta dell’albergo in via dei Capitelli, la foto di una donna nel parco di Miramare. Non guarda, sembra riservata e piena di contraddizioni: abito severo, manica lunga, su scarpe di vernice rossa.

In un armadio incastrato tra il pavimento e il basso soffitto di uno stanzino, c’erano una serie di scarpe maschili – francesine, brogues, a coda di rondine. Si fermò per un po’ a guardarle – allineate, pulite, eleganti e in scala di colore – e pensò all’uomo che ogni mattina ne sceglieva un paio, magari secondo l’umore. Si figurò un tipo un po’ esasperante, di quelli che ti guardano con disapprovazione se indossi quadretti e righe insieme. Le piaceva immaginare che ci fosse anche dell’altro, dietro la meticolosità un mondo sminuzzato in migliaia di fotogrammi, uno per ogni momento della loro storia, strappata via da chissà quale forza.
Trovava anche brevi lettere, alcune ancora chiuse che senza rimorso apriva. In una di queste una calligrafia femminile diceva: “Scusa, in questo periodo mi dimentico le ricorrenze, ma non scordo il mio amore per te, immutato e immutabile”.

Mentre frugava vide un angolo di carta azzurra che spuntava da “Riflessioni di Robinson davanti a centoventi baccalà”, aprì il libro e nel biglietto lesse: “Esiste una realtà delle cose e una del pensiero, nella quale mi fingo sola e tranquilla”.
“Forse una citazione”, le venne di pensare e nei giorni a venire né trovò altri di quei biglietti. Nella zuccheriera senza un manico: “Se stringo i denti, diranno che sorrido?”. Nell’incompiuto “I Watson”: “Pensavo di avere talento per evitare i guai, ma non è così”. Raccoglieva quei biglietti e li rileggeva per cercare di scoprirne il significato o l’ordine cronologico.

Era venerdì, sarebbe rimasta in quella casa per tutto il fine settimana e alla fine avrebbe dovuto decidere le sorti di quelle cose. Tra tutte quelle sensazioni e quei pensieri, doveva pur esserci indicato, da qualche parte cosa doveva fare. Quello che trovava, le rimandava un’immagine intermittente di quei due e anche l’odore della loro storia, che le si era incastrato dentro senza accorgersene. In un cassetto non ancora esplorato, dentro una scatolina di velluto e dentro una forchetta d’argento, ripiegata su se stessa, fino a diventare una sorta di bracciale e dentro inciso: “Troviamo un momento di cielo limpido, niente illusioni – 11 gennaio 1987”. Lo infilò al braccio, le andava grande, ma quel cielo limpido le piaceva e non lo tolse.

Un altro biglietto azzurro, lo trovò verso sera: “Esco fuori da un pensiero assurdo, ma poi ti perdono”. Un altro, questa volta con calligrafia maschile – stropicciato dalle troppe letture – diceva: “Non faticherai a capire, che quello che sono, è ormai capitato, non cambio più”. E adesso desiderava solo sapere com’era andata.

La mattina dopo con gli occhi ancora incollati di sonno, apre la finestra per un po’ d’aria fresca e dall’altra parte trova il vicino; la guarda senza imbarazzo, con aria di sfida e rimane li, non se ne va come quando lo coglie a osservarla dentro casa. Lui tace, lei pensa “Basta omertà” e chiede “Mi dica, ma questi due si amavano?” indicando dentro, come se fossero ancora li. Rimane stupita nel sentire il tono arrogante della sua voce. Le pare offensivo che quel tipo ne sappia più di lei su quei due.

E lui: “Certo che lui l’amava, altrimenti perché l’avrebbe uccisa, e in quel modo poi”.

 


 

 

Clara Sant’inverno è nata e vive a Sansepolcro in provincia di Arezzo. E’ laureata in Tecnica Pubblicitaria, e lavora come visual design. Ha sempre alimentato il piacere per le parole scritte e lette e da un paio di anni questa inclinazione è diventata parte del suo lavoro, così ha iniziato ad occuparsi di copywriting.
“Ho sempre voglia di imparare -ci scrive- non conosco tutte le risposte e per questo cerco materiali e persone che possano insegnarmi qualcosa. In questo modo pianto semi e coltivo progetti”.

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Non tutte le valigie sono uguali https://2020.passaggifestival.it/mirella-magi-valigie/ Wed, 12 Aug 2020 13:32:33 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=74236 Partenze e ritorni, valigie piene di ricordi. La patria di ciascuno di noi è nel cuore prima che negli occhi. La storia di Mirella Magi

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di Mirella Magi

 

La mia storia comincia nel vecchio ospedale di La Louviére, una cittadina industriale del bacino carbonifero di Charleroi, in Belgio. Era un giorno di aprile e i tulipani erano già fioriti, ma un soffio prepotente di freddo aveva fermato la primavera. E io, appena nata, sono stata protetta nel tiepido caldo di una stufa economica.
La mia vita nasce dall’incontro casuale e fortuito di due persone, che si portavano addosso un vissuto di fatica e di sofferenza. Erano approdati in un paese straniero per lavorare e costruirsi un nuovo futuro.
Si erano, con grande dolore, lasciati alle spalle la loro terra distrutta dalla guerra, i morsi della fame, gli affetti più cari. Mio padre e mia madre provenivano da mondi diversi .
Il mio nonno materno ,di origine reggiana, era partito da La Spezia dove, da diversi anni, risiedeva. Lui aveva già avuto la vita devastata.

Da ricco era diventato povero e si era trasferito, in cerca di lavoro, con la moglie e le figlie a La Spezia, una città, che si era espansa molto dopo la costruzione dell’Arsenale e offriva, negli anni ’30, tanto lavoro.
Poi era venuta la guerra e quel porto militare, che dava da mangiare a tanti, era diventato un pericolo, un appetibile bersaglio militare. Allora i miei nonni materni erano ritornati e sfollati a Reggio presso dei parenti, dove però dovevano pagare anche l’aria che respiravano e quei pochi soldi risparmiati se ne erano andati così… per sopravvivere . A La Spezia, alla fine della guerra, distrutta dai bombardamenti, non c’era più niente da fare. La loro casa in affitto era miracolosamente rimasta in piedi a Pegazzano, ma cosa mai avrebbero fatto lì?
La disperazione del nulla fu mitigata da alcuni manifesti che mio nonno Anselmo un giorno vide incollati sui muri della facciata della stazione. Il messaggio era pieno di lusinghe. Si cercavano Italiani da reclutare per le miniere in Belgio. E dunque il lavoro! Si poteva ricominciare a vivere in un altro paese! Mio nonno decise di partire da solo, poi la famiglia lo avrebbe raggiunto. Era il settembre del 1946.

Mio padre apparteneva, invece, alla campagna marchigiana. Lui e i suoi fratelli avevano una piccola casa di proprietà e un piccolo appezzamento di terra comprati con i soldi che il mio nonno paterno aveva guadagnato come emigrato negli Stati Uniti. Aveva fatto un viaggio pieno di mille pericoli e insidie.
Se l’era cavata, ma ritornato da poco, morì in un modo così banale. Ucciso da un fulmine, mentre faceva rientrare le pecore nella stalla. E’ proprio vero che ogni sentiero della vita ha il suo karma.
Aveva lasciato una vedova e cinque figli, che facevano gli ortolani e girovagavano a piedi, con il loro carretto, di mercato in mercato. Quando scoppiò la guerra mio padre dovette partire . Gli assegnarono il ruolo di marconista e combatté la sua guerra in Iugoslavia . Si era salvato la pelle riuscendo a sbarcare a Brindisi dopo l’armistizio del ’43 .Con un compagno risalì a piedi la penisola, lavorando nelle masserie per poter mangiare,ed arrivò al suo piccolo paese nelle Marche, quando già la linea gotica era stata liberata dagli alleati. Fu dichiarato disertore (infamia poi cancellata dopo la guerra ) ,ma tant’è, non tutti sono nati per fare gli eroi.

Mio nonno e mio padre non si conoscevano, ma mi piace immaginare che con le loro valigie di cartone si trovassero su quello stesso treno in partenza da Milano, dopo aver superato le visite mediche negli uffici collocati sotto il binario 21 . Quel binario drammaticamente noto, perché,durante la guerra, da lì partivano i convogli, pieni di Ebrei, per i campi di concentramento.
Un treno di terza classe, dai sedili rigidi di legno e pieno di merce umana venduta dall’Italia al Belgio in cambio di carbone a basso costo. Un treno che, sbuffando, si arrampicava a fatica sulle Alpi per svalicarle, superava le frontiere di Svizzera, Francia, Belgio per arrivare nel ‘plat pays’, a Namur. Lì c’era il cambio e dopo 16 ore, ecco finalmente La Louviére. Mio nonno materno e mio padre. Soli. Senza alcuna conoscenza della lingua francese , un poverissimo bagaglio culturale, un passato di dolore alle spalle e un presente fatto della speranza di farcela di nuovo.

Dopo qualche mese mio nonno tornò in Italia e portò con sé la famiglia,una moglie e tre figlie. Mia madre, la più grande, adolescente, aveva sofferto molto per la partenza dalla sua bella terra, che si affacciava sul Golfo dei Poeti , ma ritrovò quella realtà cittadina in cui era cresciuta. La Louviére era un piccolo centro molto sviluppato.
Supermercati, una grande piscina comunale, un teatro, diversi cinema, tanti caffè, grandi parchi con alberi secolari a cornice. Intorno, poco distanti, molte miniere di carbone.
Insomma, offriva una vita bellissima rispetto alle campagne primitive da dove arrivava la maggior parte degli Italiani. Italiani per lo più meridionali , spesso analfabeti , ignoranti e grezzi nei modi, inizialmente disprezzati( ‘Ici pas de chiens et d’Italiens‘) ,ma poi stimati come grandi lavoratori. E dalle baracche piano, piano questa massa di lavoratori stranieri trovò sistemazioni più decorose in camere in affitto e in alloggi popolari costruiti dallo stato belga a favore degli immigrati.

Mio padre e mia madre si conobbero nel luogo più improbabile per due come loro, ad una mostra di pittura .
Si sposarono dopo pochi mesi . Mia madre era giovane e bellissima, mio padre aveva gli occhi verdi come le spighe del grano non ancora maturo. Sono nata io, poi mio fratello. Mio nonno lasciò presto la miniera per altri lavori. Mio padre, invece,continuò a scendere nel ventre della terra per tanti anni. Si guadagnava molto e lui sognava il ritorno in Italia. Andava al lavoro in bicicletta, anche in pieno inverno .Quando saliva sull’ascensore che lo portava giù, come tanti altri, pensava al sole dell’Italia, alla sua campagna, all’aria pulita di contro a quella poussiére, che si infiltrava nei polmoni e sotto la pelle.
Io intanto ho cominciato ad andare all’asilo, di cui ricordo solo le unghie, lunghe, curatissime e dai mille colori, della mia insegnante. E poi la scuola elementare ,la scuola comunale a tempo pieno . La mia classe tutta al femminile ,le compagne di diversa provenienza e religione, le mie giovani maestre, le prime amicizie, la mia lingua madre: il dolce francese.

D’estate, a luglio, ritornavamo in Italia , con valigie piene di tante cose introvabili o troppo costose nell’entroterra marchigiano,da regalare ai famigliari di mio padre. Soprattutto cioccolato e caffè. Incontravo un mondo ancora arcaico , selvaggio e ruvido. Poi tornavo alla vita di sempre. La mia vita.
Quando i miei decisero di tornare in modo definitivo in Italia, le nostre valigie erano di cuoio. Secondo i miei saremmo andati incontro ad un futuro migliore . L’Italia stava ripartendo e mio padre aveva investito quei soldi,conquistati in miniera, nell’agricoltura . Aveva comprato una bella casa, delle terre e dei mezzi meccanici. Avrebbe fatto per il resto della vita l’imprenditore agricolo respirando ,a pieni polmoni, quell’aria che gli era mancata .

Quando siamo partiti,al binario è venuta solo mia nonna a salutarci. Lei , contraria a quella partenza per un’Italia che l’aveva tradita, era silenziosa e austera ,imprigionata nel dolore per il vederci andare via.
Io, in quel momento, ero inconsapevole della nostalgia che avrei provato poi.
Nostalgia per gli affetti lasciati, per i sapori e gli odori . Nostalgia per una vita così diversa da quella che avrei vissuto in una campagna solitaria e arretrata . Nostalgia per il Belgio che, per me, era la mia terra .
Là ho lasciato la mia infanzia. Là ho abbandonato me bambina, perdendo le mie radici.

 


 

 

Mirella Magi è nata a La Louviére da genitori italiani emigrati in Belgio, risiede a Fano. Laureata in Lettere Classiche , ex insegnante di lettere nella scuola superiore, nei ritagli di tempo ha sempre scritto ed ora che è in pensione alla scrittura può dedicare ancora più tempo.
Ha pubblicato tre romanzi: “Una manciata di lucciole” (Edizioni Tracce), “Nientediprima” (ilmiolibro.it), “Le stagioni di casa mia” (ilmiolibro.it – I edizione; Vertigo Edizioni – II edizione). 
“Alcuni mesi fa -ci racconta- ho finito di scrivere il mio ultimo romanzo “Cronaca di un inganno” per il quale sto ancora cercando un editore”.

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Trenta spighe https://2020.passaggifestival.it/ottavia-marchiori-trenta-spighe/ Mon, 10 Aug 2020 15:41:38 +0000 https://2020.passaggifestival.it/?p=73888 Ci sono parole che restano lì per sempre, come i cocci rotti di una tazza che niente potrà più accomodare. La storia di Ottavia Marchiori

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di Ottavia Marchiori

 

La luce lattiginosa del mattino di metà ottobre bagna ogni angolo della cucina promettendo, al di là dei vetri umidi di condensa, una giornata banale, uguale alla precedente e non dissimile da quella successiva. Seduti al tavolo in formica verde, io e mio fratello facciamo colazione, gli occhi fissi sulla tv a colori nuova di zecca, anelato acquisto costato a papà molti straordinari. Sullo schermo a tubo catodico passano le immagini di un cartone animato giapponese. Luca, un anno più grande di me, immerge a cadenza regolare la brioche nel caffelatte, suggendone poi la pasta grondante con un esasperante risucchio. È una delle sue ennesime provocazioni: sa che la cosa mi causa un immenso fastidio e, nonostante i calci che gli assesto  sotto al tavolo, non desiste, trovando un certo compiacimento nell’infliggermi questa tortura. In quel momento, tutto mi innervosisce: l’eterna sfrontatezza di Luca, l’idea di dover affrontare la monotonia di un nuovo giorno di scuola, il pizzicore che le pesanti calze di lana a losanghe verdi che la mamma mi costringe a indossare mi provocano sui polpacci.

Finita la colazione, io e mio fratello ci apprestiamo ad alzarci da tavola ma Luca improvvisamente, con tutta la forza dei suoi nove anni, mi dà uno spintone. Nella mia parabola verso il pavimento, mi aggrappo alla tovaglia dai disegni natalizi che nostra madre si ostina ad utilizzare lungo tutto il corso dell’anno. Il fracasso rimbalza aspro sui muri della cucina intonacati da poco: sembra il rumore che fa la grandine quando,senza preavviso, si rovescia su una giornata di fine estate, violandone la quiete. A terra, sulle mattonelle in graniglia,l’intero servizio per la colazione si estende come una curiosa costellazione di cocci in piena espansione. La brocca del latte, i piatti, le tazze in terracotta “fatti alla vecchia maniera”, come recita la pubblicità: tutto irrimediabilmente in frantumi. Luca ride di una risata cattiva. “Perché non mi lasci mai stare? Perché?” gli grido. E poi: “Ti odio! Ti odio! Vorrei che fossi morto!”. Nostra madre,le braccia abbandonate lungo i fianchi,ha lo sguardo perso per terra. Non si cura della schiuma del detersivo al limone che le gocciola dai guanti gialli disegnando aloni scuri sulle sue ciabatte grigie.Poi con una lentezza esasperante, inusuale in lei, donna dai modi spicci e dalle reazioni spesso poco misurate, alza gli occhi: su di me, poi su di Luca. Non dice una parola.Sembra una statua di sale. Sul suo volto, dietro ai lineamenti irrigiditi dalla rabbia,traspare un’inconsolabile delusione.

Tutto quello che devi fare per avere subito il Coccio è raccogliere trenta spighe”. Ricordo mia madre seduta la sera dopo cena al tavolo della cucina sotto la plafoniera opaca dentro cui andavano a morire a decine i moscerini sedotti dalla lampadina. Ricordo il rumore delle sue forbici sulla carta delle confezioni di biscotti, lei intenta a ritagliare i punti con cura,l’estremità della lingua dimenticata tra le labbra per la concentrazione. A quei tempi le promozioni erano la sua passione. Aveva coinvolto tutte le mamme dei nostri compagni di scuola in un collaudatissimo sistema di baratto: i punti dello yogurt per quelli del detersivo, quelli della pasta in cambio di quelli delle mozzarelle…L’agognato servizio le era costato mesi di febbrili transazioni. Quel mattino d’ottobre mentre io, lei e Lucane raccoglievamo da terra i frammenti in un silenzio carico di malumore, non potevamo sapere che di lì a poco tutto sarebbe cambiato. Per sempre.

Un cielo plumbeo minaccia pioggia, in questo pomeriggio buio di marzo. La polvere e la confusione regnano ingovernabili tra gli scaffali del negozio dell’usato vicino alla stazione, in cui perdo tempo attendendo l’ora di partenza del mio treno. Per oggi con l’università ho finito e mi aspettano i soliti quaranta minuti di viaggio per rientrare a casa. In una babilonia di elettrodomestici semi-funzionanti e cesti di vecchie Vhs che nessuno vuole, campeggia un vecchio cartello ormai poco leggibile con il quale il proprietario del negozio intima ai clienti di rispettare l’ordine del locale e ad aver cura di riporre gli oggetti, una volta esaminati, esattamente là dove li si è trovati. Nel frattempo fuori le nuvole scure hanno mantenuto la loro promessa: dalla porta lasciata aperta entra l’odore di pioggia che sale dal marciapiede. Tiro fuori il cellulare dalla tasca destra della mia giacca di velluto grigio per controllare l’ora: meglio che mi sbrighi. Vado verso l’uscita, accennando un saluto all’uomo dietro alla cassa che mi osserva sospettoso e il mio sguardo cade sulla vetrinetta dietro di lui.

È un attimo: tutto mi ritorna in mente. La luce di quel mattino, il fragore dei cocci, l’ultimo litigio con Luca, le ultime parole che gli ho detto…Il senso di colpa è come un animale selvatico che vive dentro di me, rannicchiato tra le costole della gabbia toracica. È sempre lì. Ci ho messo anni a tentare di domarlo ma non posso cacciarlo via né ucciderlo: posso solo conviverci.Devo stare costantemente all’erta, devo muovermi piano per non disturbarlo. Altrimenti diventa pericoloso. E può sbranarmi. Come sta facendo adesso. “Signorina, si sente bene? Posso aiutarla?“. “Sì, sì… mi scusi” balbetto. Le parole mi si impigliano tra i denti. “Quanto costano?“. Allungo il braccio indicando un punto dietro la sua spalla destra. Lui annuisce e si gira mentre io cerco di darmi un po’ di contegno asciugandomi il mascara sciolto dalle lacrime.

Sento uno sguardo pungermi la pelle: l’uomo seduto sul sedile di fronte al mio, stretto nel suo inappuntabile impermeabile verde, mi soppesa con aria interrogativa. Fissa i miei capelli,completamente bagnati: detesto gli ombrelli, non ne ho mai avuto uno. Lascio che lo sconosciuto continui a giudicare il mio aspetto: mi è indifferente. La mia attenzione è tutta per il sacchetto di plastica azzurro in cui l’uomo del negozio dell’usato ha riposto il mio acquisto. Lo stringo in mano, poggiato sulle ginocchia per custodirlo dai sobbalzi del treno.

Ciao papà, ciao mamma“. “Ciao Frà. Com’è andata oggi?“. “Bene, bene. Grazie“. “Tra poco si cena. Ho fatto le lasagne“. “Vado a cambiarmi un attimo di sopra e arrivo“. Le solite parole di convenienza, le solite frasi dette senza convinzione, battute scontate di un’eterna recita. Un gioco di ruoli in una famiglia che sta insieme a fatica, come i pezzi di un antico vaso incollati malamente l’uno all’altro. Ruoli fragili. Sono cresciuta stando ben attenta a non fare rumore, a camminare sul filo del rasoio senza cadere, a non dare problemi ai miei.Specie a mia madre. Mi sono laureata nei tempi previsti e ho trovato subito lavoro come ricercatrice nella stessa università.
Da piccola a scuola non sono mai stata bocciata e non ho mai saltato una lezione di clarinetto anche se lo detestavo con tutta me stessa. Suonarlo mi dava la nausea ma vedevo la soddisfazione sul volto dei miei genitori mentre mi esibivo ai saggi o durante qualche pranzo di Natale con i parenti… Ho sempre fatto in modo che fossero contenti di me e che non avessero dispiaceri a causa mia.

Salgo le scale. Esito un attimo davanti alla porta della camera che un tempo è stata di mio fratello. Poi la apro. Tutto è come allora. Sul suo letto ci sono ancora gli stessi pupazzi, la stessa trapunta, alle pareti gli stessi poster con i robottoni. Mia madre ha sempre preteso che nulla venisse tolto o spostato. Tiro fuori l’involucro dal sacchetto, strappo le vecchie pagine di giornale in cui sono avvolti una tazza giallo paglierino con un mulino stilizzato e un piatto dello stesso colore su cui è immortalato un volo di rondini. Non so neanche che senso abbia averli presi ma ormai ogni cosa ha perso senso, da tanto tempo. Li appoggio sulla piccola scrivania laccata di bianco, vicino alla foto, inquadrata in una spessa cornice d’argento, in cui mio fratello mostra contento la macchinina telecomandata ricevuta per il suo nono compleanno. Luca avrà nove anni per sempre.

 


 

Ottavia Marchiori è nata a Broni in provincia di Pavia. Vive a Parma dove si è laureata in lingue e letterature straniere. È stata ideatrice e curatrice di un blog letterario dedicato all’opera dello scrittore francese Jean-Claude Izzo. Alcuni suoi haiku sono stati pubblicati nella raccolta “Haiku tra meridiani e paralleli – V stagione”, edita da “Fusibilia Libri”. Fa parte degli autori delle raccolte di racconti “Una giornata di Hemingway in val Trebbia” edita dalle “Officine Gutenberg” di Piacenza e “Cinquantatré vedute del Giappone” pubblicata da “Idrovolante Edizioni”. 

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