Disegno Tullio Ghiandoni 800x600

 

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di Marco Ferri

L’ingegnere aveva lasciato sul tavolinetto della sala d’aspetto un opuscolo. Aveva una copertina elegante, di colore blu, di un blu quasi nero, lucido, sul quale spiccavano come lune sovrimpresse le lettere di una ditta. Ho capito subito che quel prodotto non si rivolgeva a me. Forse non si rivolgeva a nessuno. Una specie di monolito di una civiltà sconosciuta, per quanto apparentemente familiare, perché aveva la forma di un libro o di una rivista.
Il lampadario, quella sera, si rifletteva su quelle pagine patinate con un rimbalzo che faceva male agli occhi, quasi fosse impenetrabile, quella copertina. E comunque sembrava un affronto sfogliarlo. Però ho cominciato a sfogliarlo.
Questa società, c’era scritto, fa capo a due gruppi, IRU e COMI. Acronimi senza significato, pensavo, sigle che cambiano periodicamente, passano di mano in mano, di proprietario in proprietario, e le tracce delle loro metamorfosi si perdono nei faldoni delle Camere di Commercio. Cambiano pelle come serpenti e restano viscide come serpenti. Questa società, spiegava il documento, opera nelle infrastrutture dei sistemi di produzione, con particolare interesse alle infrastrutture sociali. Studia le soluzioni integrate e razionali dei fattori che le compongono: uomini, merci e risorse.

Entravamo in punta di piedi dentro quel mondo, io e mia moglie. Un brivido per il divertimento. Spionaggio industriale, disse mia moglie allargando le palpebre.
La pagina seguente era doppia. Dal centro esatto, dove era raffigurato un sole nero, si sprigionavano quattro improbabili raggi gialli. Ma era un giallo soltanto decorativo, falso. Io ne seguii uno, quello che più degli altri mi inquietava e irritava, quello che, diritto, andava a infilzare il cuore di UOMINI. Non riuscivo a capire che cosa, per loro, erano gli uomini e che cosa dovevano diventare.
Gli uomini sono il supporto di base indispensabile per il funzionamento di qualsiasi sistema. Eccolo spiegato, molto onestamente. E per uomini intendevano anche le donne.
Ma non sembrava un riconoscimento, anche se aveva l’aria di una concessione.

Quella frase stava scritta nella parte superiore di una pagina colorata d’arancio, anche questo un arancio decorativo e falso, dove figure non meglio precisate, figure stilizzate, uomini, donne, forse manichini senza volto, tutti in piedi, quasi piantati, se ne stavano come in attesa di un soffio vitale o di un comando. Gli uomini sono il supporto di base indispensabile per il funzionamento di qualsiasi sistema. Bene. E dal cuore di ogni figura partivano delle linee rette che – oltre a dare profondità al disegno – stavano a significare che quegli uomini o quelle donne o quei manichini, tutti erano armonicamente integrati alla cornice.
È pertanto necessario studiarne il comportamento, curarne l’inserimento nel sistema, armonizzarli nell’organizzazione, prepararli alle funzioni che svolgeranno, assisterli nel loro sviluppo organico e nello svolgimento delle loro mansioni …
Una specie di Truman show.
Però non sembrava una cura amorevole. Voleva sembrare amorevole, ma in modo decorativo e falso, come i colori. E non solo per il tono, accurato e refrattario. E poi il loro Truman doveva essere consapevole delle condizioni e le aveva accettate.
Non pretendevano un po’ troppo?

Giunto a questo punto, l’ironia non bastava più. Provavo fastidio, rabbia, e per un attimo ho creduto che di speranze noi non ne avevamo più. Le nostre speranze. Quando e dove e come avremmo potuto sperare qualcosa, non avrei più saputo immaginarlo. Erano solo illusioni. In qualche modo anche piuttosto infantili. E subito dopo, ecco la viltà, calda, falsamente quieta. Ho creduto che l’unico modo per continuare a vivere felicemente fosse quello di chiudere gli occhi. Chiudere tutto, non prestare attenzione alle aspirazioni, ai dubbi, a idee diverse. Loro avrebbero pensato a tutto. Loro avrebbero indirizzato e curato e esaltato i miei pensieri che andavano curati indirizzati ed esaltati, loro avrebbero gestito anche i miei sogni, eliminato le mie pazzie, loro avrebbero, con insindacabile obiettività, stabilito le regole e tracciato la linea che divide la normalità dalle patologie. Perché darsi pena?
La vita ruota attorno a questi quattro termini, sentenziava l’opuscolo, quel piccolo manuale che conteneva i codici del futuro: educazione, formazione professionale, impiego, salute. Il che significa: prevenzione infortuni, centri medici, sicurezza, svaghi.
Tutto verrà fornito.
Io osservavo quella pagina blu, glaciale, avversa, con quelle frasi dure. Lessi con molta attenzione un pensiero immerso in un denso celeste maculato di ombre nere. Colori senza significato, ovviamente.
I processi di razionalizzazione dei metodi di lavoro, di programmazione delle operazioni di produzione e di manutenzione, i sistemi di esecuzione e di controllo delle operazioni, sono aspetti ugualmente importanti per utilizzare gli investimenti tecnici nel modo più economico e razionale.
Come dargli torto?

Razionale. Questa parola che avevo sempre amato adesso mi sembrava di piombo, mi era passata dalla testa allo stomaco. Il suo contrario, irrazionale, che avevo odiato, perché lo associavo alle vecchie forme di pensiero, superstizioni, astrologia, magia nera, bianca, rosa, rosa mistica e altre coglionerie intramontabili, era assente ma presente, non so come dire, come se dietro tutta quella razionalità ci fosse una inquietante, pericolosissima irrazionalità, e comunque entrambe le parole per me adesso significavano angoscia.
Mia moglie, che spiava le mie smorfie dall’altra parte del tavolo, mi guardava con due occhi spenti che volevano dire fatalismo e stanchezza, ma anche cinismo. Ed erano occhi trasparenti, vacui. Eppure io capivo quello che dietro quello sguardo non poteva non esserci. La voglia di una felicità diversa. Una via di fuga.
Loro ci volevano bene, al culmine del loro pensiero progettuale. Sani, tranquilli, ordinati, sorridenti. E per raggiungere questo scopo, a chi solo per un millimetro scantonava dalla norma, davanti ai suoi occhi presentavano incubi velenosi. Il vuoto e il disordine delle periferie. L’abbandono. Perché dal momento che hanno pensato a noi, a tutto ciò che siamo e che vogliamo essere, tutto questo appartiene a loro.
Tre punti su quattro, dei quattro raggi di quel sole nero, erano dedicati a mezzi, risorse, applicazioni. Dedicati cioè ai costosissimi strumenti sui quali dovevamo, con la massima attenzione, trascorrere il tempo della nostra vita. E loro avrebbero usato verso di noi, nel tempo in cui a loro saremmo stati indispensabili, tutti i riguardi che si hanno verso le cose proprie, quelle di valore. A meno che, nel tempo, non ne avessero trovate altre. E ne stavano trovando altre, pensavo, sebbene al momento le altre, meno problematiche dal punto di vista psicologico, fossero ancora nel loro periodo di progettazione e di prova. Intelligenze meno problematiche delle nostre, artificiali.

Sollevai gli occhi verso mia moglie, interrogandola in silenzio. E lei già fissava i miei. Due lune di miseria.

 

 


L’Autore
Marco Ferri, nato a Fano nel 1950, è stato direttore dal 1998 al 2009 della Biblioteca Federiciana di Fano. Ha pubblicato diversi libri di poesia e narrativa e alcune traduzioni da autori francesi. Una scelta dai diari si può leggere nel sito della Fondazione Carifano, sotto il titolo leopardiano: Cari inganni.
Il suo sito web: https://ferripoetry.com

Il disegno è di Tullio Ghiandoni (Fano, 1922 – 2003).

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