“C’è un mito in ognuno di noi e ognuno di noi a bisogno di un mito, c’è un mito per vivere, c’è un mito per morire.”
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Il mito – dice Marcello Veneziani, intervenuto al Teatro della Fortuna nella giornata conclusiva di Passaggi Festival 2017 per presentare l’ultima sua opera Alla luce del mito (Marsilio) – è irruzione di una dimensione eccezionale rispetto a una vita ordinaria, delinea un aspetto di diversità in confronto all’ordinarietà dell’esistenza. Il mito è anche proiezione, la nostra epoca è immersa nell’immediato, nel presente e nell’utile, il mito è il richiamo ad un passato favoloso ma anche proiezione di una dimensione a più livelli: è elevazione, realtà trascendente. Il mito è un racconto sorgivo del pensiero del mondo, i miti non muoiono; di mito si vive e di mito non ci si può liberare. C’è sempre la cristallizzazione di un fatto che si separa dal fluire quotidiano e banale delle cose e diventa qualcosa su cui costruire un’opera.
L’errore è stato pensare il mito come un fossile delle società arcaiche, un detrito storico superstizioso. “Quando il mito si è dissociato dal pensiero è venuto meno anche quest’ultimo”, ma il mito, cacciato dalla porta, rientra sempre dalla finestra sotto forma di surrogato.
Ci troviamo in un’epoca gremita di surrogati di miti essendo contemporaneamente consapevoli che il mito è fondamentale per l’animo dell’uomo. Tutti nasciamo con una vocazione mitopoietica che seleziona dal passato alcune figure e le fa vivere come un eccezionale momento verso il quale abbiamo nostalgia, che è trasformazione della lontananza in mito. Il mito accompagna il ricordo, siamo animali mnemonici che fondano sulla reminiscenza. Il mito è anche a base dell’amore, noi tramite l’innamoramento non facciamo altro che mitizzare l’altra persona che diventa unica tra le tante. Non bisogna vedere il mito come un “fratello barbaro” e irrazionale della ragione. Malinowski concepisce il mito come una carta costituzionale di una comunità, in quanto facendo riferimento a un passato mitico e sacro, giustifica una determinata azione dell’uomo.
Mentre l’utopia è visione, parla di un mondo mai esistito, il mito parla di un mondo altro mai morto, ideale, calato nel reale paradigma, nella realtà non contrapposto alla realtà.
Il mito diventa un espediente per “addomesticare la morte”; tuttavia non ci priva della nostra condizione mortale, ma ci permette di dare una continuità, di avere proiezioni che vanno al di là della nostra vita terrena e di non concepirla “come una bestia che ci rapisce”.
“C’è una cosa più terribile del canto delle sirene: il silenzio delle sirene. Quando non cantano più, perdiamo l’incanto della vita, la capacità di vedere un altro mondo, oltre quello immediato, materiale e contingente.
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Marcello Veneziani conclude l’incontro con una suggestiva immagine, da un dipinto di Magritte: c’è un ponte, un ponte che si interrompe a metà ma che nel fiume si riflette per intero. C’è una meta visibile, che è quella che percorriamo nella vita e un’altra metà invisibile. Se hai occhi attenti che riescono a specchiarsi dentro il fiume lo vedi per intero. Percorrere il ponte e arrivare all’altra sponda è un’impresa ardua, per farlo non bastano le gambe. Questo cammino richiede uno sforzo immaginativo del pensiero e della creatività che proprio nel ‘contingente’ si riscopre. Coloro che invece hanno ‘la vista della mente’ riescono a comprendere che noi abitiamo in due regni: “quello della necessità e quello essenziale, verso il quale noi ci proiettiamo per avere la capacità di guardare anche le cose invisibili.”
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Articolo a cura di Aurora Pozzi e Giorgia De Angeli